In queste settimane le opinioni sulla meritocrazia si diffondono in ogni ambito e si moltiplicano. Il loro proliferare è certamente un bene, perché contribuiscono a chiarire il concetto in modo inequivocabile e, cosa ancora più importante, introducono il merito e i suoi criteri nelle scelte di politica pubblica, che sino a oggi sono state più orientate dall’ideologia e da considerazioni di Real Politik che non da dibattiti seri su criteri oggettivi e trasparenti.



Ovviamente il successo del termine “merito” e del concetto di “talento”, affiancati in alcuni casi da “regole” e “liberalizzazioni”, non è unanime, ma vi sono tentativi di ideologizzarne il senso, in alcuni casi tramite adesioni o appropriamenti preconcetti e in altri casi con altrettanto preconcette critiche. Le critiche che partono da una visione egualitaria e assistenzialistica della società, spesso non reggono un ragionamento approfondito: il merito ha già in sé una componente molto forte di equità, di etica e di collettivismo, oltre a essere indispensabile in una prospettiva di rapporti internazionali.



La creazione dei criteri meritocratici nasce sempre dalla condivisione chiara e trasparente dei valori che li ispirano e la loro necessità deriva dal riconoscimento che nella nostra società alcuni fenomeni – la fuga dei talenti, il blocco dell’“ascensore sociale” e la generale crisi politica, etica ed economica – nascono proprio dal persistente interesse particolare di alcune categorie, che si rifiutano di fare scelte, appunto, di merito, nascondendosi dietro comode considerazioni conservative, quasi sempre a proprio vantaggio.

Ma qual è invece il senso positivo del merito? In diverse occasioni vi è la tentazione di attribuirsi “patenti di merito” in modo un po’ frettoloso e furbesco. Succede, per esempio, quando si indicano come eccellenti i risultati, le politiche o le prassi di alcune Regioni o Enti semplicemente confrontandoli con quelli delle Regioni o Enti vicini. Dovremmo invece uscire dal provincialismo tipicamente italiano e confrontarci con gli esempi virtuosi presenti in Europa e a livello globale. Non è confrontandosi sempre con chi sta peggio che si dimostra il proprio merito.



In altri casi il merito viene indicato a seguito dell’utilizzo di alcune prassi – come nel caso del concorso pubblico nella scuola – che sono sicuramente migliorative rispetto alla chiamata diretta o alla chiamata per graduatoria, ma rappresentano solo un parziale avvicinamento alla meritocrazia e non certo il suo raggiungimento. Moltissime forme di concorso pubblico e molte delle prassi derivate dal codice degli appalti hanno una funzione quasi esclusivamente formale e burocratica, ma sono nella sostanza discriminatorie, inefficienti e costose.

In ultima analisi, si parla spesso di merito associandolo a pratiche organizzative all’interno di aziende o enti e il concetto viene banalizzato con il classico premio a chi produce di più. Anche questa visione del merito è molto conservativa e spesso limitante. È chiaro che qualsiasi forma di valutazione in azienda è meglio della semplice progressione per anzianità o della distribuzione del variabile “a pioggia”, ma il limite di queste considerazioni è che escludono quasi sempre la testa delle aziende e tendono a proteggerla da un dibattito serio che coinvolga soggetti terzi e indipendenti.

Non stupisce che i molti critici, vedendo questi “esempi” limitati e fuorvianti di meritocrazia, si scaglino poi contro il concetto generale. La realtà è che la meritocrazia in Italia rappresenta una visione estremamente radicale e rivoluzionaria. Significa una discussione ampia e seria sulle attuali gerarchie della società e su alcuni diritti e privilegi anacronistici. Significa ribaltare in molti casi l’ordine costituito secondo criteri particolaristici e ormai antiquati.

Questo cambiamento in alcuni casi si ripercuote sugli interessi dei sindacati conservatori, degli evasori, delle lobby politiche e dei burocrati manager di Stato. Allo stesso modo non risparmia quelle associazioni di categoria, quei media e i tanti imprenditori che mal gradiscono la competizione e si nascondono in settori protetti. Costoro, a diverso titolo, navigano nella demeritocrazia assoluta, spesso a danno del Paese e di chi è escluso da questo sistema: giovani, donne, piccoli imprenditori, commercianti e tutti quei cittadini onesti, che pagano le tasse.

L’introduzione della meritocrazia in Italia non porterebbe a un cambiamento che impatta su una sola categoria sociale, come molti credono, ma andrebbe a modificare radicalmente l’ambiente e le regole del vivere sociale ed economico, rendendoli migliori, sia dal punto di vista economico che etico. Significherebbe dare possibilità e guadagni a chi ora paga servizi scadenti e condizioni impossibili per aiutarlo a crescere e a essere premiato. Significherebbe dare la possibilità al più povero di diventare il più ricco grazie al suo impegno. Significherebbe liberare la società da vincoli e privilegi per andare verso un futuro più giusto e moderno.

Tutte le altre visioni parziali del merito devono essere riviste alla luce di queste considerazioni. Il merito è un valore imprescindibile in una società democratica, da perseguire giorno dopo giorno, senza affidarsi a banali e inutili scorciatoie.