Non so quanti lettori di questa testata abbiamo letto l’acido corsivo apparso il 9 novembre su The Economist. Narrava la notte spesa dai diplomatici dei 27 dell’Unione europea (spesso tre per Paese – uno accreditato presso il Regno del Belgio, uno accreditato presso l’Ue e uno presso la Nato), nella Grand Place di Bruxelles, in trepida attesa dei risultati elettorali delle presidenziali americane e il grido esultanza, accompagnato da litri di champagne, alla notizia della vittoria di Barack Obama. Non sta certo a me ripetere quanto scritto dal settimanale britannico con pungente ironia riguardo le speranze (o piuttosto illusioni) nutrite dagli ambasciatori dei 27 rispetto al contributo che la seconda Amministrazione Obama potrebbe dare a risolvere i nodi e i problemi europei. Tanto più che mi sono già espresso, su questa testata, il 3 novembre scorso.



Soffermiamoci, invece, sulla politica estera. In primo luogo, non è insolito vedere i valvassori esprimere gioia e promettere gratitudine al vassallo: lo si faceva già nell’alto medioevo e nel Brabante (dove è localizzata Bruxelles) sono stati bravissimi a farlo sino a quando nel 1830 sono diventati uno Stato-cuscinetto costruito sulla carta geografica, è stato dato loro come Re un cadetto di una casa germanica e si sono illusi di essere indipendenti. È curioso, però, che i valvassori esprimano gioia se il vassallo ha chiaramente mostrato di infischiarsi di loro.



Durante la campagna elettorale, Obama non ha mai trattato di temi Usa-Ue, non hai mai delineato una politica americana nei confronti dell’Ue e ha essenzialmente considerato l’Ue, e meglio ancora l’Eurozona, come un peso per l’economia mondiale a ragione dei pasticciacci brutti in cui, proprio con le loro mani, gli europei si sono ficcati. Di norma, poi, i valvassori pagano le tasse senza troppo mugugnare perché sanno che il vassallo li difende. Obama, invece, ha detto a chiare note che gli europei dovranno aumentare i loro contributi alla difesa comune. D’altronde, gli Stati Uniti hanno uno stock di debito in rapporto al Pil analogo a quello dell’Italia, una spesa pubblica (e un disavanzo annuale dei conti pubblici) in rapida ascesa (tanto che uno dei primi passi dell’inquilino della Casa Bianca è stato un “faccia a faccia” a porte chiuse con il Presidente della Camera, John Boehner, per tentare un accordo sui conti pubblici), i conti con l’estero in profondo rosso.



È arduo pensare che nei prossimi anni Obama riuscirà a varare i programmi di politica sociale che ha in mente e giungere a un migliore equilibrio dei conti. Gli europei dovranno quindi concludere che: a) spetterà a loro mettere le mani in tasca per pagare una quota crescente della spesa comune di difesa: b) non potranno contare sugli yankee per mettere ordine in aree vicine in difficoltà. Eloquentemente, e senza dare alcun preavviso, Obama ha ritirato i missili Usa ai confini della Polonia che avrebbero dovuto difendere l’Europa contro i missili iraniani (ben appostati a mandare ordigni anche su Berlino). Quindi, se scoppiano disordini nella ex-Jugoslavia o nel bacino del Mediterraneo, il messaggio è lo stesso di un vecchio film di Mauro Bolognini con Totò come protagonista: Arrangiatevi!

Grave la situazione nel Mediterraneo. C’è probabilmente un nesso tra le dimissioni del Direttore della Cia, David Petraeus, e l’eccidio dell’11 dicembre a Bengasi, dove il Consolato Usa era una copertura per una “stazione” dell’intelligence americana. Indubbiamente, dopo l’avvenimento, la Casa Bianca sarà meno propensa a esporsi in Libia. Ha ancora vivo il ricordo della Somalia. Già un Presidente “democratico” Usa, Bill Clinton, pur potendo tagliare la testa a Al Qaeda dopo gli eccidi a Nairobi e Dar-es-Salaam e prima di quello alle Torri Gemelle, esitò dato che parte crescente del suo elettorato era di colore. Quindi, in Libia si finirà in lotte per bande (Noi speriamo che ce la caviamo).

Gli “obamiani italiani” affermano che in compenso si avrà una “Comunità economica atlantica” e una “zona di libero scambio atlantica”. Non solo è un sogno che ha alimentato la generazione di italiani che negli anni Sessanta e Settanta erano giovani internazionalisti e credevano in un mondo più libero alimentato da un commercio internazionale più libero. Ora, infatti, l’Amministrazione Obama non solo guarda ad altre aree, ma è fortemente protezionista: ha bloccato un accordo di libero scambio con la Colombia dopo che i poveri colombiani ne hanno fatte di cotte e di crude per bloccare il narco-traffico.

Il secondo mandato di Obama sarà più protezionista del primo anche in quanto la campagna elettorale è stata finanziata principalmente da lobby contrarie alla libertà di mercato a livello internazionale. L’era dei negoziati multilaterali nell’ambito del Wto deve essere considerata chiusa – lo ha detto Pascal Lamy a Mario Monti. La stessa esistenza del Wto è a rischio: per i prossimi quattro anni deve proporsi di sopravvivere, senza farsi troppo notare.

In Italia, smettiamo di farci illusioni: il patto che lega l’United auto workers (Uaw), il sindacato automobilistico americano, e Sergio Marchionne prevede il trasferimento della cabina di regia della Chrysler-Fiat a Detroit. Per Obama e per la Uaw, Melfi e Pomigliano d’Arco non sono neanche puntini sulla carta geografica.