Il terzo salvataggio (o quarto o quinto, chi li conta più) della Grecia è rinviato. Intanto il Parlamento di Atene ha approvato un’altra manciata di tagli in seduta notturna tra domenica e lunedì, assediato dalla quotidiana manifestazione di protesta in piazza Syntagma. E ieri la Grecia ha emesso un po’ di titoli per mandare avanti almeno la gestione corrente. Avanti così, come nulla fosse.



La Banca centrale europea stampa le nuove banconote della serie Europa con un’immagine della mitica fanciulla rapita da Zeus. Quanto piace la Ellade simbolica e quanto poco la repubblica ellenica dei debiti e di una crisi dalla quale non si riprenderà per una generazione. Intanto, si rinvia. Anche per la Spagna. Il governo di Madrid potrebbe chiedere aiuto all’Ue, anzi dovrebbe, ormai ci sono anche gli strumenti pronti e ben oliati. Mariano Rajoy invece tentenna. Perché è un uomo indeciso, perché è orgoglioso o perché così vuole Berlino?



Forse per tutte e tre le cose messe insieme. Angela Merkel non si può far vedere in giro. È andata a Lisbona e l’hanno accolta anche lì con la svastica; non erano i camerati di Alba Dorata, bensì i compagni dei sindacati (magari quelli dell’ala più radicale). È vero, l’austerità in Europa non ha innescato né rivolte, né rivoluzioni, ma sta provocando una deriva lenta, uno scivolamento verso questa depressione psicologica, vociante e impotente.

Nessuno dei problemi di fondo è stato risolto. Nessuna delle crisi più gravi è stata curata fino in fondo. La Banca centrale europea ha offerto unguenti, antipiretici e molte parole. Per il resto, si attende. Chi, che cosa? Un deus ex machina? Si passa di vertice in vertice, sperando che il prossimo sia risolutivo. Non è che a giugno non sia successo niente, per carità. Sono emersi segnali interessanti di volontà politica comune, Frau Angela ha fatto melina, ha trattato, ha imposto di suoi paletti, alla fine ha accettato che il meccanismo di salvataggio vedesse la luce. Poi basta. Parole e rinvii.



Questa tattica miope vale anche per l’Italia. Il governo Monti si è perso nel labirinto del tempo. Basti guardare alla legge di stabilità scritta e riscritta dal Parlamento e dal Governo, con i tira e molla sulle imposte, le false partenze, le promesse non mantenute, gli annunci intempestivi. Niente è più venuto fuori, dopo i proclami dell’estate, sulla vendita del patrimonio pubblico. Dovevano essere venti miliardi l’anno per cinque anni, così aveva detto Vittorio Grilli, ministro dell’economia. Invece, non si è visto nemmeno un centesimo. Quanto allo sviluppo… quisquilie. Non parliamo di liberalizzazioni e privatizzazioni: di consistente, solo Snam rete gas che dall’Eni passa alla Cassa depositi e prestiti, poco più che una partita di giro.

La tempesta s’è placata e ciò riduce l’urgenza, quanto meno in Italia. Ma la carica di tensione attraversa ancora i mercati. Lo si vede dallo spread che ieri è risalito a 370 punti base. Ormai da molti mesi non scende. Lavoce.info, nel celebrare il compleanno del governo Monti, ha pubblicato la curva dei Btp e dei Bonos rispetto al Bund tedesco, durante questi dodici mesi. Si vede chiaramente che la riduzione si è fermata a settembre e dal 15 ottobre in poi è in risalita. Tutti in Italia pensano solo alle elezioni, ma di qui ad aprile ci sono cinque mesi e se la marcia dei tassi continua torneremo oltre i 500 punti base.

Che cosa può fare ancora di utile e coraggioso il presidente del Consiglio? Mettere Cgil e Confindustria con le spalle al muro per portare a casa un accordo sulla produttività. Sarebbe un segnale importante. In fondo, quando Monti ha incontrato Hu Jintao, il presidente cinese (ormai ex) gli ha detto che lui apprezzava soprattutto la riforma del mercato del lavoro. Un comunista liberista. Ma sono tutte cose che produrranno effetti positivi nel medio periodo. E nel breve?

È evidente che l’Italia deve sostenere la domanda, perché produzione e produttività sono legate da un comune destino. E sostenerla con effetti neutri sul bilancio pubblico. Quale bilancio? Quello al netto del sostegno congiunturale, come prescrivono gli stessi accordi europei. La Germania intende invece al lordo, senza capire che così l’economia viene spinta sul piano inclinato, riducendo le entrate e peggiorando deficit e debito. Ma anche se Monti puntasse i piedi per far rispettare le intese, i margini sarebbero pochi.

La ripartenza, d’altra parte, deve avvenire dal lato degli investimenti non dei consumi. Anche per gli effetti sulla bilancia dei pagamenti: più consumi significa più import di prodotti che l’Italia non produce. Il boom dei telefonini è paradigmatico: da un lato mostra che c’è ancora capacità di spendere in beni non primari da parte di una classe media impoverita, ma tutt’altro che povera; dall’altro dimostra che così facendo peggiorano i conti con l’estero. Mentre paesi come la Francia hanno deciso di fare concorrenza con una vera e propria svalutazione fiscale: 20 miliardi di riduzione di imposte e contributi, due terzi ai profitti e un terzo ai salari è un colpo che deve spingere anche l’Italia a reagire.

La coperta è corta, lo sanno tutti. Ma Monti non può passare l’inverno con la tattica del temporeggiatore. C’è bisogno che riprenda in mano l’iniziativa. Un’operazione di immagine ma con qualche utilità sarebbe convocare gli stati generali dello sviluppo mettendo insieme tutti i soggetti: le banche che ancora lesinano il credito perché temono per la loro stabilità, gli imprenditori che hanno intascato cedole e tariffe senza investire, i sindacati che denunciano come un attentato alla civiltà la richiesta di lavorare di più là dove il lavoro c’è, e gli investitori stranieri che affilano i coltelli perché l’Italia è comunque uno dei mercati più affluenti al mondo.

Insomma, una sorta di nuovo Britannia, ma rovesciato quanto meno nel senso di marcia. Non si tratta di vendere a pezzi il Paese, bensì di rilanciare la sua capacità di produrre. Poiché molto oggi si gioca sulle aspettative, poiché il fattore fiducia è determinante per spostare masse immense di capitali, un’operazione del genere avrebbe il suo perché.

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