Il Consiglio di Stato ha approvato, ma con riserva, il regolamento relativo all’Imu per gli enti non commerciali, di fatto indicando la necessità di una riformulazione dello stesso.

La ragione del solo parziale parere favorevole è da ricercarsi nella possibilità che tale regolamento incorra nella procedura di infrazione per mancato rispetto delle regole di concorrenza europea. Il quadro, pertanto, si va complicando e in questa situazione poco chiara gli enti non profit si trovano a dover valutare se e quanto è da loro dovuto e l’impatto che l’imposta avrà sui loro già – in molti casi – vacillanti bilanci.



Il regolamento ha lo scopo di stabilire da una parte il rapporto proporzionale da utilizzare in caso di immobili adibiti sia ad attività commerciale che ad attività non commerciale; dall’altra di definire i requisiti, generali e di settore, per qualificare le diverse attività come svolte con modalità non commerciali.



Nella confusione generale, crediamo sia utile e necessario provare a fare un po’ di chiarezza. La discussione intorno al tema dell’Imu sembra vedere contrapposti coloro che sono stufi dei “privilegi della Chiesa” e coloro che questi privilegi vogliono difendere. Innanzitutto, occorre perciò ribadire che tutti gli enti senza scopo di lucro sono interessati all’evoluzione normativa, non solo quelli in qualche modo riconducibili alla Chiesa cattolica.

Dal punto di vista normativo, esiste dal 1992 una norma che prevede che gli enti non commerciali che svolgono determinate attività (assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive) siano esentate dal pagamento dell’Ici.



Questa norma agevolativa è stata modificata nel 2006, con la previsione che gli immobili fossero esentati a condizione che le attività ivi svolte non avessero esclusivamente natura commerciale. Recentemente, nel gennaio 2012, l’Ici è stata “trasformata” in Imu e la norma esentativa ha subito un’ulteriore modifica: al fine di ottenere l’esenzione le attività devono essere svolte “con modalità non commerciali”.

Al regolamento di cui stiamo trattando è stato demandata, come abbiamo detto, la descrizione di cosa si intenda per attività svolte “modalità non commerciali” e il criterio proporzionale da utilizzarsi nel caso in cui in un immobile vengano svolte attività commerciali su una frazione di esso.

Il Consiglio di Stato, nell’adunanza dell’8 novembre 2012, ha richiamato la necessità che il carattere non economico dell’attività – condizione per ottenere l’agevolazione – sia conforme a quanto stabilito in sede europea, principalmente con la Comunicazione 11.1.2012 n. 2012/C8/02. Tale comunicazione pone l’accento soprattutto sulla non concorrenzialità dei servizi offerti e specificando la declinazione di tale non concorrenzialità nei vari settori di attività dei Sieg (Servizi di interesse economico generale).

Per esempio, per quanto riguarda l’attività didattica, viene dato rilievo al fatto che le rette pagate coprano solamente una frazione del costo effettivo del servizio e non possano quindi essere considerati una retribuzione del servizio prestato. 

L’interpretazione del Consiglio di Stato non sembra facilmente conciliabile con quanto affermato dal premier Mario Monti, il quale in un intervento alla Commissione Industria del Senato del 27 febbraio ha – verbalmente – esteso i termini dell’esenzione, portando quale esempio le scuole e precisando che “sono esenti le scuole che svolgono la propria attività secondo modalità concretamente ed effettivamente non commerciali” e ravvisando tale caratteristica nel fatto di essere paritarie (e dunque il cui servizio è “assimilabile a quello pubblico”), di prestare il servizio a favore di tutti i cittadini e nelle quali gli avanzi siano destinati alla gestione dell’attività didattica.

Un altro tema oggetto del dibattito è legato a interpretazioni che negli anni si sono succedute (una per tutte: la sentenza della Corte costituzionale n. 429/2006) che vogliono l’esenzione riconosciuta al solo ente non commerciale che, oltre a possedere l’immobile, lo utilizza direttamente per lo svolgimento delle attività agevolate.

Tale requisito non sembra rispondere ad alcuna ragionevolezza: se una associazione ospita nel proprio immobile altre associazioni che perseguono fini analoghi o complementari ai propri, non si capisce perché l’immobile debba essere assoggettato ad imposta. Tra l’altro, questo è il caso della maggior parte del non profit italiano: chi ha un immobile è facile che lo metta a disposizione di altre realtà. Se tale “ospitalità” avviene a titolo gratuito, o prevedendo il rimborso delle spese, e gli enti ospitati svolgono attività rientranti tra quelle esentate, realmente il passaggio nella sfera impositiva dell’immobile è difficile da comprendersi.

Il dibattito sull’Imu ha certamente messo in luce la difficoltà di comprendere (in Italia) e di far comprendere (in Europa) una anomalia italiana che, a differenza di altre, ha reso il nostro Paese capace di una tenuta “strana” anche in questo periodo di burrasche: la presenza di enti non profit che – pagando più di tutti lo scotto dei tagli, dei ritardi di pagamento, di una normativa confusa e arretrata, di un numero eccessivo di soggetti preposti ai controlli, dell’inevitabile precariato cui le entrate incerte condannano chi opera in questo mondo – continuano a realizzare una utilità sociale che non ha pari.

Ci aspettiamo che tra le mille cose che l’Europa ci chiede ce ne sia una che l’Europa possa da noi imparare. Ma ciò necessita che chi ci rappresenta ne sia consapevole.