Antiterrorismo esodato. Le violenze durante le manifestazioni di giovedì scorso hanno fatto suonare una sirena di allarme sul fronte della sicurezza pubblica, anche se un campanello già da tempo squillava, sinistramente. Il ministro degli Interni, Annamaria Cancellieri, rispondendo alle polemiche di chi, foto alla mano, protestava per le manganellate dei poliziotti lasciando nel cassetto quelle degli agenti di ps aggrediti dai manifestanti, ha detto che “ieri l’Italia bolliva”. Ai cento gradi non è arrivata di colpo. Da tempo la temperatura saliva. E l’aspetto che preoccupa di più è questo: alle violenze di piazza potrebbe associarsi una nuova stagione di terrorismo che, secondo alcuni, potrebbe riorganizzarsi, approfittando proprio del disagio sociale provocato dalla crisi.
Il problema è che le forze dell’ordine, oggi, sono meno attrezzate di un tempo a prevenire e combattere un eventuale ritorno del fenomeno. Negli anni di piombo si era sviluppato un know how in materia, c’era personale esperto, una squadra valida, come dimostrano i tantissimi successi ottenuti nel corso degli anni. Poi la tensione è caduta: Br e compagnia sono diventati un problema relativamente minore; i fari sono stati puntati di più su criminalità organizzata e altri reati. Con il passare del tempo, anche gli esperti di terrorismo se ne sono andati, chi trasferito ad altri compiti più pressanti, chi in pensione (esodati?). Così ora c’è la necessità di ricostruire la squadra di un tempo. E bisogna farlo rapidamente: al Viminale sono convinti, e lo hanno dichiarato pubblicamente, che quanto è successo giovedì scorso sia solo un anticipazione di scontri sempre più violenti attesi per le manifestazioni del prossimi mesi; che la comparsa di provocatori mascherati, professionisti della violenza, in grado di trasformare i cortei in momenti di guerriglia, sarà una costante; e che proprio qui vada cercato un possibile (probabile) aggancio con formazioni terroristiche decise a riconquistare un ruolo. Bisogna riorganizzare una forza di intelligence.
Il Corriere a dicembre. Entro il 18 dicembre prossimo Pietro Scott Jovine, amministratore delegato di RcsMediagroup (la casa editrice de Il Corriere della Sera), presenterà al consiglio di amministrazione il piano strategico dei prossimi tre anni del gruppo. Le cose, come si sa, vanno male, come del resto succede a tutta l’industria del settore: perdite, forte indebitamento, mancanza di una linea precisa da seguire per battere la concorrenza dell’on line che sta divorando gli spazi della carta stampata senza tuttavia fornire, al momento, un’alternativa di business. Prima di quella data verosimilmente si riunirà quello strano organismo che va sotto il nome di Comitato consultivo al consiglio di amministrazione. È stato costituito da poco e dovrebbe essere una specie di consulente del cda nelle scelte difficili. Secondo alcuni, è solo un contentino dato al re della sanità lombarda, Giuseppe Rotelli, che pur essendo il primo azionista di Rcs con il 16,5% delle azioni ed essendo anche vicepresidente della casa editrice, non è ancora stato ammesso nel patto di sindacato, la vera stanza dei bottoni dei soci che contano e che prendono tutte le decisioni più importanti, a partire dalle nomine dei direttori delle testate del gruppo.
Questo comitato si è già riunito giorni fa. Qualcuno ha scritto che avrebbe affrontato un tema delicato: la proposta del gruppo Fiat, proprietario de La Stampa e terzo azionista di Rcs, di fondere le due concessionarie di pubblicità del giornale torinese e della Rcs per avere una realtà più incisiva sul mercato, dotata di maggiore forza d’urto. Ma la voce è stata smentita ufficialmente dallo stesso gruppo Rotelli: l’argomento non è stato trattato nella riunione del Comitato. Comunque il tema c’è e rimane sotto traccia. La famiglia Agnelli, proprietaria della Fiat, ha una sua tradizione nel gestire i business di finanza e potere: conferisce un proprio asset a una società, diventandone così azionista di peso, se non di controllo. Qualcosa del genere ha in mente anche per risolvere i suoi problemi nella carta stampata: utilizzare il quotidiano torinese (in cattive acque) per aumentare la sua influenza in Rcs senza naturalmente tirare fuori un centesimo. E questo è sottinteso i veri signori disdegnano il vil denaro.
Scott Jovine è un manager completamente estraneo al mondo dell’editoria (viene da Microsoft) voluto su quella poltrona tenacemente proprio dal gruppo Fiat. Quindi se lo hanno sponsorizzato con tutta la loro energia è perché, come si usa dire, “avranno la loro convenienza”. Bisognerà vedere che risposta daranno gli altri azionisti. E che parere fornirà il Comitato presieduto da Rotelli anche lui totalmente estraneo al mondo dell’editoria come d’altra parte gli altri due membri del Comitato stesso: Andrea Bonomi, proprietario di fondi di private equity che investono dalla Ducati alla Banca Popolare di Milano, a Luca Garavaglia, proprietario della Campari.
Bernabè da bere. Le telecamere birichine (siano benedette) ci hanno fatto vedere giovedì sera i vip che alla spicciolata entravano in Campidoglio per partecipare a una cena di gala (si dice così?). Andavano quasi di fretta per sfuggire all’intervistatrice che li incalzava per sapere se a richiamarli lì a quell’ora non fosse invece una riunione di Bilderberg, quello che secondo alcuni sarebbe un club di superpotenti internazionali che di tanto in tanto, quando trovano un momento libero, si riuniscono per decidere le sorti dei comuni mortali (a questo proposito sorprende la presenza di giornalisti come Lilli Gruber e Gianni Riotta). Finalmente è uscito sulla soglia Franco Bernabè, presidente di Telecom Italia e membro del suddetto club. Sorridendo ha detto che quella serata non era altro che una cena offerta a personaggi importanti da Telecom Italia. In seguito a questa notizia, finito di scrivere questo Giganomics, chiamerò la mia banca e darò mandato di vendere le obbligazioni Telecom che possiedo. Preferisco non espormi con un debitore pieno di problemi e di debiti che perde tempo in serate che ricordano la Milano da bere.
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