Tratto da Il Sole 24 Ore del 17 novembre – Il tema delle fondazioni bancarie che riappare ciclicamente è certamente centrale nel dibattito economico politico del nostro paese. A fine anni ’80 l’Italia decide di stare al tavolo dell’Unione europea e di giocare la partita dell’euro. Modernizzare il sistema bancario – rilanciarlo in dimensioni, efficienza, competitività – è la priorità assieme al risanamento delle finanze pubbliche. Uomini di Stato come Beniamino Andreatta, Carlo Azeglio Ciampi, Guido Carli e Giuliano Amato preparano la risposta: far convergere tutte le banche italiane – anche quelle a controllo pubblico – verso il modello di società per azioni, quello che l’eurozona in cantiere pone come standard per banche-imprese operanti in concorrenza sul libero mercato dell’euro. Nessuno ha dubbi che sia necessario spingere le aggregazioni e promuovere ”governance” manageriali ai vertici dei grandi gruppi creditizi dell’Azienda-Italia. Ma a chi deve andare inizialmente la proprietà della nuova Cariplo Spa o del San Paolo di Torino Spa? Sempre allo Stato?
La legge Amato-Carli del ’90 e poi la legge Ciampi del ’98 hanno il coraggio di rispettare la cultura bancaria viva nel Paese, proiettandola nel futuro. Le grandi Casse di risparmio e gli altri istituti pubblici nascono nei territori della penisola, dove il dinamismo dell’impresa è strutturalmente connesso con quello della società civile. La stanza dei bottoni della Cariplo si chiama da sempre “commissione centrale di beneficienza”, perché decide come vengono devoluti gli utili in azioni di pubblica utilità, ma fin dal 1822 è chiaro che la Cassa dev’essere anzitutto una banca efficiente nel raccogliere il risparmio delle famiglie e far credito alle imprese che lo meritano, che ripagano i prestiti perché creano fatturato, profitto, occupazione. Quando la riforma bancaria di fine ventesimo secolo crea le Fondazioni – separandole verso l’altro come azioniste di aziende bancarie che devono fare salti di qualità – non inventa “mostri”, ma ristruttura con criteri aggiornati un “made in Italy” solido: il “banking” – incentrato sull’intermediazione risparmio-credito – deve potersi concentrare sulle sfide della nuova competizione europea ; l’operatività sociale (oggi diciamo: la “sussidiarietà”) deve cercare percorsi nuovi. Da un lato Cariplo, Comit , Ambroveneto, Sanpaolo-Imi, Cassa di Padova, Cassa di Bologna, Banco di Napoli costruiscono Intesa-Sanpaolo (oppure UniCredit); dall’altro la Fondazione Cariplo, la Compagnia San Paolo, la Fondazione Crt diventano investitori istituzionali con finalità no-profit . Soggetti che non hanno complessi d’inferiorità verso la Gates Foundation: nata decenni, secoli dopo che le comunità territoriali italiane hanno cominciato ad accumulare “capitali finanziari collettivi”.
Se Bill e Melinda Gates scelgono e controllano loro i “trustee” che gestiscono ed erogano i miliardi di dollari donati da una famiglia, gli enti pubblici (Regione, Province, Comuni) e la società civile (rettori, imprenditori, leader del volontariato) della Lombardia o del Piemonte decidono – alla pari -sui miliardi di euro virtualmente accumulati da milioni di famiglie lombarde o piemontesi lungo due secoli. Questo ha del resto riconosciuto la legge Ciampi, varata dopo che la Fondazione Cariplo (e le sue sorelle) avevano fatto tutte i loro “compiti a casa” già prima che nascesse l’euro: cedendo il controllo delle loro banche e accelerando la creazione di “campioni nazionali”. Non è stato un caso che il premier Mario Monti, intervenendo all’ultimo congresso dell’Acri, abbia raccontato come il cancelliere tedesco Angela Merkel sia da sempre un’ammiratrice del riassetto bancario italiano. Nella Germania del 2012 è ancora l’anno-zero: i muri fra banche private e Landesbanken non sono mai crollati e i risultati, dal 2008 in poi, si sono visti. In Italia nessuna banca è fallita, al contribuente la grande crisi bancaria non è costata nulla, le grandi banche si sono ricapitalizzate sul mercato. In Germania, in Olanda, in Gran Bretagna, in Spagna, le cose sono andate molto diversamente. Potrà spiacere ad alcuni osservatori, ma le “banche delle Fondazioni”, nell’Europa del Sud, hanno resistito: la Lehman Brothers, invece, ha lasciato un buco da 763 miliardi di dollari; e lo Stato britannico è dovuto tornare in tutta fretta controllore assoluto della Royal Bank of Scotland.
Una decina d’anni fa, attorno alle Fondazioni è tornato ad accendersi un duro scontro politico-culturale. Non per coincidenza, l’iniziale tentativo ri-statalizzatore del ministro Tremonti è stato quasi contemporaneo all’unica, vera riforma costituzionale in più di sessant’anni di Repubblica: l’introduzione del principio di sussidiarietà nella carta. Il nuovo articolo 118 non è un artificio di ingegneria istituzionale e non riguarda una ripartizione di competenze pubbliche fra Stato e Regioni. E’ invece l’affermazione di una svolta politico-economica di cui forse solo ora cominciamo ad cogliere le dimensioni. L’opzione-sussidiarietà vuol dire prendere atto che l’organizzazione statalistica della vita economico-sociale del Paese dell’Europa) è superata: e non solo nella gestione del welfare. Tuttavia, affermare la sussidiarietà – anni prima del collasso di Wall Street – ha significato ribadire che il mercato tout court non è lo sbocco obbligato del cambiamento. Bene: le sentenze della Corte costituzionale del 2003 sullo status delle Fondazioni sono forse la risposta più concreta e coerente che il sistema-Paese italiano abbia dato a sé e ha proposto all’esterno su questo terreno. L’Alta Corte – portando alle ultime conseguenze le “guidelines” della legge Ciampi – ha detto che gli 88 gestori di un patrimonio collettivo tuttora stimato in oltre 40 miliardi di euro hanno come compito “l’organizzazione delle libertà sociali”: non l’ammortamento del debito statale e neppure il ruolo di meri agenti di piani regolatori bancari decisi altrove. L’autonomia di una Fondazioni – archetipo del privato sociale – ha la sua prima responsabilità di gestire in modo professionale il patrimonio (anche le partecipazioni bancarie) che è stata affidato alla governance degli stakeholders del territorio. E ha una seconda responsabilità nel riversare professionalmente sui territori i rendimenti di quella gestione. La Fondazione per la sussidiarietà, nata quando la Costituzione ha dato dignità piena alla “nuova forma politica”, ha sostenuto l’Acri nella sua battaglia civile. Non abbiamo cambiato idea: l’esproprio delle Fondazioni – ora come allora – ci pare insidiosamente pseudo-liberista. La ricostruzione di “un’economia finanziaria sussidiaria” (come forse può essere ribattezzata “l’economia sociale di mercato”) ha bisogno delle Fondazioni bancarie italiane: non della loro distruzione.