Mitt Romney, a cinque giorni dal voto, ha bisogno di evocare nemici. Come è giusto che sia nel momento cruciale di una campagna elettorale in cui i fantasmi possono pesare quanto i ragionamenti. Il fantasma preferito, in quest’ultimo scorcio di un tour di propaganda durissimo per entrambi i combattenti, sembra l’Italia. Ieri il candidato repubblicano ha evocato il rischio di una voragine finanziaria, riflesso dell’eccesso di interventismo pubblico: “Se continuiamo a spendere 1.000 miliardi di dollari più di quanto guadagniamo – ha detto – gli Stati Uniti si troveranno sulla strada di Italia e Spagna”.
Certo, non fa piacere essere evocati come pietra di paragone negativa, come c’era già successo ai tempi di “P.38 e spaghetti” negli anni Settanta. Ma non è cosa saggia rifiutare a priori le critiche altrui, quando hanno un fondo di verità. Giusto un anno fa l’Italia subiva l’onta della risata di scherno riservata da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy all’allora premier Silvio Berlusconi: il tempo ha dimostrato che non si trattava di un insulto all’Italia, ma alle acrobazie di un politico in grossa difficoltà.
Più volte, anche ai tempi del governo Prodi, si sono spese parole di fuoco nei confronti di The Economist, colpevole di sottolineare, con largo anticipo sull’antipolitica e il boom dei grillini, gli handicap accumulati dal Bel Paese sull’altare delle corporazioni, dei ceti improduttivi, ma anche dei veti sindacali su relazioni di lavoro al passo con i tempi. Avessimo dato retta a quei warning, invece che usarli come armi per una politica interna provinciale e meschina, forse avremmo guadagnato tempo prezioso.
Stavolta, però, il candidato repubblicano non coglie nel segno. Anzi. L’Italia, come Romney dovrebbe sapere, non spende più di quel che incassa. Al contrario, per necessità e per impegni sottoscritti in sede europea (quelli che Berlusconi tentava di non rispettare, dopo essersi impegnato…), il Bel Paese è il leader mondiale dell’austerità, primato pagato a caro prezzo dall’economia e dalle tasche delle famiglie. Non è per questo un esempio virtuoso. E bene farà il futuro presidente, chiunque egli sia, a non illudersi che l’austerità senza uno spazio di crescita per il business e gli animal spirits del capitalismo possa risultare la medicina vincente.
Bene fa, in questo senso, Romney a usare l’Italia come una “case history” negativa: burocrazia, connivenze con mafie e camarille, rifiuto ostinato a condividere i costi della ripresa, l’uso generalizzato dell’insulto del concorrente sono i simboli che abbiamo esportato nel mondo. Giusto che un Paese che sa ritrovare l’unità sotto un solo generale, come ha fatto l’America di fronte al ciclone Sandy premiando il valore del presidente Obama, guardi con occhio critico allo spettacolo di casa nostra.
Ma Romney il giorno prima ha sbagliato toni e contenuti quando ha accusato “the Italians” che oggi possiedono Chrysler di voler spostare la produzione della Jeep in Cina. Affermazione sbagliata in primis perché Chrysler, i cui impianti americani sono saturi, sta semplicemente riflettendo su come soddisfare la richiesta di altre 500 mila Jeep che potrebbero essere vendute in Cina. Tra le opzioni più convenienti, anche nei tempi di esecuzione, figura un accordo con una fabbrica cinese già alleata con Fiat e Chrysler. Secondo, perché non è accettabile il tono dispregiativo insito in quel “the Italians”: senza di loro e dando retta alle strategie di Romney, oggi Chrysler non esisterebbe nemmeno più.
Terzo, i ghost writers del candidato repubblicano non sono sfuggiti alla tentazione di dare in un malizioso cocktail degli spendaccioni agli italiani e dei malandrini ai cinesi, ossia al diavolo cui addebitare nell’inconscio collettivo i guai della globalizzazione e del relativo declino Usa. Pechino risulterebbe il diavolo che ha succhiato dollari e sangue all’America, costruendo una formidabile macchina economica e finanziaria che sfrutta a dovere l’arma di una moneta artificialmente debole per mettere in ginocchio il made in America.
Non è il caso di entrare nel merito di queste accuse da comizio. Semmai, più che altro per divertimento, si può tentare un paragone tra l’America di Romney e la vigilia del Congresso del Partito comunista cinese, chiamato a designare la squadra che guiderà il Pese nei prossimi dieci anni. Il candidato Usa, si sa, è stato attaccato in quanto miliardario, paladino di quell’1% di ricchi che si è arricchito sulle spalle del Paese precipitato nella crisi. I Romney, del resto, poveri certo non sono. Hanno in tutto, secondo le stime più alte, 350 milioni di dollari (250 nei blind trust dei genitori e 100 nei trust dei figli). Ma, come nota Alessandro Fugnoli, “George Washington era però più ricco (550 milioni in dollari di oggi) e di somme ben maggiori dispose Kennedy”.
Nessuno, ai tempi della Guerra di indipendenza o della Nuova frontiera kennediana, venne accusato dai concorrenti per essere ricco. Non capitò nemmeno a Franklin Delano Roosevelt. L’America ruggente ha sempre considerato la ricchezza una benedizione del cielo. Oggi, al contrario, tende ad assomigliare all’Europa: segno di debolezza nei propri mezzi?
Nei giorni scorsi un’inchiesta del New York Times ha portato alla luce la ricchezza accumulata dalla famiglia di Wen Jiabao, leader uscente del Partito, durante la lunga stagione di potere del politico, giudicato al di sopra di sospetti di corruzione spicciola (assai diffusi in Cina. E non solo…): 2,7 miliardi di dollari. Intanto Bloomberg ha fatto i conti in tasca al futuro numero uno Xi Jinping, quasi un miliardo di patrimonio. Certo, questi numeri cadono in un Paese che non dispone degli strumenti di controllo della democrazia parlamentare, del resto in crisi. Ma si ha la sensazione che la ricchezza non susciti scandalo nel Paese del Drago.
La parola d’ordine di Deng Xiao Ping “arricchirsi è rivoluzionario” ha ancora valore. I problemi non mancano di sicuro in un Paese che, spiega l’economista Mao Yushi (nemmeno parente), “dovrà pur affrontare una recessione dopo tre decenni di crescita così sostenuta”. Come è giusto che sia visto che, come rileva lo stesso Mao (premiato dal Cato Institute con un premio che vale quanto un Nobel), un terzo delle case costruite negli ultimi cinque anni è vuoto.
Insomma, non è azzardato sostenere che, mentre l’Europa reagisce alla crisi dello stato assistenziale con una pressione fiscale sempre più alta e l’America si appresta a decidere se seguirne o meno l’esempio, la Cina si prepara ad andare nella direzione opposta. E non è detto che sia la peggiore.