Arrivano i nostri. Si era tanto invocato l’intervento del governo nell’affaire Fiat, che alla fine si è manifestato. Forse non nella forme previste e sperate dagli esperti di grande industria, i guru che disegnano gli scenari di questo settore maturo, ma tuttora indispensabile in qualsiasi Paese che voglia contare qualcosa sullo scacchiere internazionale. Però bisogna accontentarsi; la minestra che passa il convento è quella che è. Questa volta ha passato due accorati interventi di censura contro la Fiat e in particolare il suo amministratore delegato, Sergio Marchionne, reo di aver messo in mobilità 19 operai dello stabilimento di Pomigliano in seguito al reintegro, ordinato dalla magistratura, di 19 dipendenti iscritti alla Fiom. La decisione del Lingotto è stata appunto severamente criticata dal ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, e dalla sua collega del Welfare, Elsa Fornero.



A ripercorrere la cronaca di questo ultimo anno si nota un comportamento un po’ particolare da parte del governo. Sulla vicenda Fiat è stato assente nella maniera più totale, sostenendo che: 1) l’Italia non può mettere nemmeno un euro a sostegno dell’industria automobilistica nazionale perché le casse sono vuote; 2) anche se ci fossero dei fondi disponibili, non sarebbe giusto indirizzarle verso il Lingotto perché le imprese private devono poter agire come meglio credono, anche se questo meglio si traduce nella chiusura di stabilimenti nazionali e trasferimento delle produzioni all’estero. Applicando queste due ricette coincidenti degli squattrinati e dei liberisti, i governanti italiani sono stati alla finestra a guardare che cosa stavano combinando Marchionne & c. In giro per il mondo, intanto, Barack Obama inondava di prestiti l’industria dell’auto per farla sopravvivere (prestiti serviti anche alla Chrysler-Fiat); la Germania della Cancelliera Angela Merkel gestiva in prima persona il dossier Opel per impedire che cadesse in mani straniere (segnatamente di nuovo quelle italiane della Fiat), e in ultimo, la notizia è di pochi giorni fa, il presidente francese ha assicurato finanziamenti per 6-7 miliardi di euro al gruppo Psa (Peugeot-Citroen) in gravi difficoltà e tentato a chiudere un stabilimento alle porte di Parigi. Ecco come tre stati hanno fatto politica industriale per salvare un settore strategico, soprattutto dal punto di vista dei livelli occupazionali che genera. Roma non l’ha pensata così: liberismo assoluto, la Fiat faccia quello che crede. Pensa che sia bene chiudere Termini Imerese creando un problema sociale in Sicilia? Benissimo, sono affari suoi. E avanti così. Ma ora si è aperta una questione di principio, o forse sarebbe meglio dire di puntiglio: i 19 lavoratori della Fiom sono stati discriminati proprio perché iscritti a un sindacato non gradito all’azienda? Sì, ha detto la magistratura. E la risposta di Marchionne non è altro che una ripicca? Sì, dicono i due ministri.



E allora la morale è questa: l’industria dell’auto può anche scomparire dall’Italia, il governo non interviene perché non sarebbe educato trattandosi di un fatto strettamente privato; ma quando entrano in ballo questioni di principio, che possono far recuperare un po’ di immagine presso gli operai e la sinistra sindacale, allora ecco i ministri pronti a dire la loro. Sono dei tecnici, si sa. Ma sentono anche loro aria di elezioni.

Grande banca. Le cose davvero importanti, di solito, si fanno e poi si annunciano. Nel caso dell’ipotetica fusione fra Unicredit e Banca Intesa, invece, si è scelto di percorrere il cammino inverso. Un lungo articolo di Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera, in nome dell’italianità, spiegava come fosse opportuno unire i due colossi del credito nazionale per farne uno solo non scalabile (o difficilmente scalabile) da parte di qualche ingordo finanziere internazionale, o di qualche potere forte, o di qualche fondo sovrano, eccetera. Ora sapendo che Mucchetti è il giornalista economico più apprezzato da Giovanni Bazoli, che si è appena fatto rinominare – e in anticipo sulla scadenza naturale del mandato – presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa, qualcuno si è domandato se c’era un nesso fra questi elementi, se la penna di Mucchetti era servita a tracciare il primo tratto di una linea che andrà lontano. Sapete com’è: i dietrologi non dormono mai. Però questa volta sono almeno appisolati perché non riescono a trovare risposta. Si consolano guardando i listini: la boutade ha fatto bene ai due grandi del credito direttamente interessati e in genere a tutto il settore bancario, le cui quotazioni da tempo zoppicano.



 

Lo gnomo e l’euro. La Banca centrale svizzera ha sospeso gli acquisti di euro che continuavano da un anno per difendere un rapporto fra il franco e la moneta europea di 1,2. Il timore era che il franco, tradizionale moneta rifugio, si apprezzasse troppo di fronte alle turbolenze dell’euro mettendo in crisi l’economia svizzera, fortemente legata alle esportazioni. Per questa difesa, Berna ha investito molte risorse e ha sempre mandato ai mercati un chiaro messaggio: siamo disposti a usare tutte le nostre munizioni per difendere quel tasso di cambio. E siccome le munizioni (leggi riserve) della Banca centrale svizzera sono immense (due terzi del Pil) i mercati hanno accettato il rapporto 1,20 e non hanno tentato di lanciarsi in una guerra pericolosa con le autorità elvetiche.

Ora giunge il segnale che il pericolo euro è passato: Berna appunto non nei compra più perché pensa non sia necessario e la famosa quota di 1,20 franchi possa tenere da sola. Mai abbassare la guardia, per carità, perché i pericoli sono sempre in agguato: ma quella decisione rappresenta un buon segnale per l’euro.

 

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