Un declassamento non è la fine del mondo. Ma per un Paese che ha sempre fatto vanto della sua tripla A, anche nel disprezzo esplicito dei vicini ufficialmente meno virtuosi (cioè noi) è un duro colpo da accettare. Dopo Standard & Poor’s, anche Moody’s ha tagliato il rating della Francia, che da AAA passa ad AA1, con outlook negativo sul debito. La rigidità del mercato del lavoro, le scarse prospettive di crescita e la carenza di competitività sono tra le ragioni del giudizio. James Charles Livermore, operatore finanziario, spiega a ilSussidiario.net gli effetti e le cause più profonde della decisione dell’agenzia di rating. «Il problema – afferma – va posto, anzitutto, in termini geografici: la Francia è un Paese del sud o del nord Europa? Indubbiamente, la sua dimestichezza con l’economia capitalista incoraggerebbe a collocarla al nord. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che, contestualmente, rappresenta, nell’Antico Continente, un’anomalia: è di gran lunga, infatti, l’economia occidentale più statalista. Essendo il Paese che ha inventato gli Stati moderni, potremmo dire, addirittura, che è stata pioniera dell’economia statalizzata». La crisi di oggi e il downgrade di Moody’s giungono in questo contesto. «Gli operatori, osservando i tassi di finanziamento francesi, sospettavano da tempo che il distacco tra Francia e Germania si sarebbe acuito sempre di più. Poi, ci sono state le elezioni. E la vittoria di Hollande si è connotata come l’elemento scatenante della crisi in atto». Il Presidente francese non ne ha azzeccata una: «Ha, in sostanza, fatto marcia indietro rispetto a gran parte misure che l’amministrazione precedente aveva assunto; anche quelle (poche) sulla quali il giudizio comune era positivo: la gestione Sarkozy aveva cercato di diminuire notevolmente il peso dello Stato nell’economia e nella società, tentando di ridurne tutte le relative inefficienze». Non solo: «In questi mesi, i francesi hanno subito il fascino degli interventi rassicuranti di Hollande. Il suo messaggio, in sostanza, ha risuonato in questi termini: “state tranquilli, la crisi non esiste”».



Secondo Livermore, quindi, «la recrudescenza statalista si è congiunta a una serie di nodi che, alla fine, sono venuti al pettine; basti pensare all’industria automobilistica francese, salvata, di volta in volta, con interventi pubblici mascherati da operazioni di mercato, che hanno rallentato l’individuazione di una soluzione effettiva». L’azione di Hollande non si limita a produrre sentimenti avversi sui mercati finanziari, ma sta generando contraccolpi sull’economia reale. «E’ crollata la domanda interna perché sempre più persone sono sostenute dai sussidi statali, e sempre meno devono  accollarsi la sostenibilità di questo modello  insostenibile. Non dimentichiamo che i grandi capitalisti francesi, all’indomani delle elezioni, avevano trasferito la propria residenza fiscale in Belgio». Il confronto con le circostanze italiane denota due situazioni opposte: «In Italia, la crisi e l’acuirsi degli spread sono stati condizionati da un sentimento ostile dei mercati finanziari e da un attacco speculativo prodotto nei confronti di una situazione politica in disfacimento, ma l’economia del Paese era sana; in Francia, l’economia scricchiola, ma la politica è forte».



Per sua natura, il sistema francese rischia più danni del nostro: «E’ estremamente rigido, e incapace di autoriformarsi: o resiste, o collassa». Ecco cosa accadrà nel breve termine: «La Francia entrerà a far parte dei Paesi sotto i riflettori. Tuttavia, a differenza dell’Italia, dispone ancora della facoltà di tirare la Germania per il bavero. E’ abbastanza forte, politicamente, per impuntarsi e fare di tutto per non essere spinta nel club. Non è escluso, che potrebbe condurre una battaglia in termini di ritorsioni sul fronte della situazione delle banche tedesche. Dietro la facciata di virtuosismo delle quali c’è un buco nero di svariati miliardi, relativo al possesso in portafoglio di un enorme ammontare di titoli tossici».



 

(Paolo Nessi)