Vu cumprà Bonomi? Chissà se Mario Monti, nel suo viaggio finalizzato a convincere i ricchi sceicchi ed emiri a investire un po’ dei loro petrodollari nella malmessa finanza italiana, avrà speso qualche parola a favore della Sea, la società che gestisce gli aeroporti milanesi di Linate e Malpensa e che è ora in quotazione. No, difficile lo abbia fatto. Come presidente del Consiglio di un Paese con i conti sgarrupati, ha assolutamente bisogno di attrarre capitali, però è anche una persona di qualità, piena di buon senso e giustamente tiene al proprio prestigio internazionale e al proprio buon nome. Quindi non avrà commesso un errore simile. La quotazione di Sea è stata, fin dalle origini, una brutta operazione finanziariamente e politicamente. Ed è stata ed è gestita e presentata male. Chi ne ha spiegato meglio di tutti le ragioni è stato ieri Giorgio Meletti sul Fatto, giornale rimasto ancorato alla vecchia idea che i mass media hanno ragione di esistere solo se sono un contropotere e pubblicano sempre le notizie, anche se dispiacciono agli inserzionisti. Nel 2011 la giunta Pisapia arrivata al potere ha trovato la cassa vuota e poca argenteria da vendere. Ha guardato che cosa aveva di decente da poter mettere sul mercato e ha adocchiato appunto la Sea. Ma che farne e come spremerla? La si quota? Non la si quota? Alla fine è prevalsa una soluzione di compromesso: un 30% è stato messo all’asta.



La storia è nota, anche se tutti la vorremmo dimenticare: all’ultimo momento, battendo un concorrente indiano che aveva portato la busta con l’offerta a un indirizzo sbagliato, ha vinto il fondo F2i guidato da Vito Gamberale che ha pagato la Sea 5,2 euro per azione. Prezzo d’affezione, hanno detto i soliti scettici. Sarà. Ma siccome Gamberale non è un apprendista, ma un signore che sa il fatto suo, se ha pagato quella cifra avrà avuto le sue buone ragioni. E chiudiamola qui, con Pisapia che si è portato a casa (nel senso di Palazzo Marino) un po’ dei soldi che gli servono per fingere di fare qualcosa di sinistra. Ma non bastano, ne servono altri. E allora ecco rispuntare la quotazione che viene rilanciata in un quadro francamente inquietante. I due azionisti pubblici (Comune al 54,8% e Provincia al 14,6%) litigano sull’opportunità dell’Ipo e continuano a farlo ancora oggi con il collocamento in corso. C’è dissidio su tutto, ovviamente anche sul prezzo con il consueto codazzo di banche e advisor a caccia di commissioni che indicano una forchetta fra i 3,2 e i 4,3 euro (detto per inciso: forchetta è termine quanto mai appropriato visto l’appetito dei convitati). Il prezzo, ovviamente, sarà deciso dal mercato, ma comunque tale da fare imbestialire chi poco fa aveva pagato 5,2 euro. Alcuni sostengono però che un’azione della Sea non vale neppure 4 euro, visto che i suoi due scali non hanno un grande avvenire; soprattutto Malpensa, dopo che ha perso il derby con Fiumicino preferito come hub dall’Alitalia.



Insomma, questa quotazione nel suo complesso offre un’immagine sconfortante. Come scrive il Fatto “c’è puzza di fregatura in arrivo”. Chi si è messo al riparo da ogni rischio di brutta avventura (oltre naturalmente a banche e advisor) è il presidente della Sea stessa. Si chiama Giuseppe Bonomi e ha un curriculum con un plus straordinario: è di Varese. Questo gli è servito più degli studi ad Harvard, perché la Lega lo ha notato e lo ha fatto entrare, se non nel cerchio magico, almeno nel consiglio di amministrazione della Sea, come ad. Ma quando ci si occupa di aerei, la sicurezza non è mai troppa: nel tempo Bonomi ha preferito scambiare quella poltrona con una da direttore generale, in modo da essere un dipendente, non scaricabile con disinvoltura, più tutelato. Così oggi è a capo di una società formalmente privata (è una spa), ma sotto controllo pubblico (Comune e Provincia di Milano), messo lì dalla politica, con le cariche di presidente e direttore generale. Questa seconda gli consentirà, in caso la quotazione portasse turbolenze e i nuovi azionisti volessero cambiare management, a un indennizzo: 1,7 milioni di euro. Per Bonomi le uscite di sicurezza sono a destra, a sinistra…



Sempre Bonomi per cercare di piazzare il suo prodotto, cioè le azioni, ha detto nella prima tappa del road show, che in futuro la Sea renderà il doppio di un Btp perché nei prossimi tre anni distribuirà il 70% degli utili come dividendi. E come sa che potrà mantenere questa promessa? Magari sarà sostituito ai vertici, si prenderà la sua buonuscita, ma non avrà più voce nel capitolo dividendi. Magari la Sea avrà bisogno di tenersi una quota più alta degli utili per fare investimenti e competere con gli altri scali europei che, sempre a detta di Bonomi, sono meno generosi con gli azionisti. Forse proprio perché hanno un management con più cultura industriale e meno dipendente dai politici che distribuiscono poltrone.

Ma anche l’altro Bonomi… Il quasi omonimo del presidente Sea, Andrea Bonomi, sta vivendo anche lui qualche momento con un po’ di elettricità. Con il suo fondo Investindustrial si è assicurato il controllo della Banca Popolare di Milano uscita devastata dalla gestione di Massimo Ponzellini. Il suo piano è quello di sistemare alla meglio e al più presto l’istituto per poi rivenderlo a un big del credito internazionale. Il suo mestiere di finanziere è fatto così: per esempio, pochi mesi ha rivenduto all’Audi, con una ricca plusvalenza, la Ducati comprata un paio di anni prima. Le cose però alla Bpm si complicano. Domenica scorsa Milena Gabanelli ha dedicato il suo Report alla banca milanese e a Ponzellini, ma un po’ di veleno lo ha riservato anche a lui avanzando dei dubbi sui capitali che hanno appoggiato Bonomi nell’operazione milanese. Come se non bastasse, il giorno dopo l’agenzia Moody’s ha declassato Bpm assegnandole un rating Baa3, quasi un junk bond.

 

Economist, Moody’s e la Francia. Come si chiamerebbero in Italia due che a distanza di 24 ore l’uno dall’altro tirano una pugnalata a qualcuno?

 

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