Tutto rinviato a lunedì, o forse a un altro lunedì, di rinvio in rinvio fino alle elezioni tedesche? Anche Jean-Claude Juncker, primo ministro lussemburghese e capo dell’Eurogruppo, allarga le braccia: “Io non so quando ci sarà un accordo sui 44 miliardi di euro”. E il demone del’Ellade torna di nuovo a consumare un’Europa divisa da fratture a geometria variabile, per usare una locuzione che tanto piace ai burocrati anche se finora era stata usata per indicare la possibilità di un nucleo di paesi, le avanguardie, di aprire la strada agli altri. Adesso, è vero esattamente il contrario. Sono divisi i grandi dell’eurozona, è divisa la trojka che recita nella tragedia greca (qui è il Fmi a mordere il freno), è divisa la Bce con la Bundesbank che non ha affatto ammorbidito la sua posizione, è divisa l’Unione sul bilancio con la Gran Bretagna pronta a far saltare tutto. Ma andiamo con ordine.
Il Governo e il Parlamento di Atene hanno approvato il nuovo pacchetto di austerità, in mezzo a uno stillicidio di proteste dominate da un senso di fatale rassegnazione piuttosto che da uno spirito di rivolta. Tagli, ancora tagli, decine di migliaia di dipendenti pubblici licenziati (non subito, tra un anno, ma tant’è) mentre il Fondo monetario internazionale dice che sono palliativi, dolorosi, ma insufficienti. In ogni caso gli accordi erano che, a fronte della nuova stangata, l’Ue avrebbe concesso una nuova tranche di aiuti e due anni in più per raggiungere l’avanzo primario del 4,5%. Invece, niente da fare, la Germania ha puntato i piedi.
Nein, nein, nein. No a nuovi prestiti, no alla riduzione dei tassi, no all’ipotesi di un haircut dei titoli greci, insomma un default controllato. “Non se ne parla nemmeno”, ha dichiarato il ministero delle finanze; eppure se ne parla eccome, soprattutto da parte del Fmi, che vorrebbe prendere atto dell’inevitabile. Il debito pubblico è fuori controllo: con una recessione del 4,5%, secondo le stime per il prossimo anno, un debito in salita dal 179% al 189% del prodotto lordo. Come pensare che possa scendere di ben 70 punti in sette anni? Il debito ammonta attualmente a 355 miliardi di euro, dei quali 290 sono in mano a paesi europei. Un taglio del valore facciale dei titoli pari al 50% come avvenne in primavera per i creditori privati, significa mettere nei bilanci degli altri paesi un costo di 145 miliardi, distribuiti in funzione della grandezza di ciascun membro dell’eurozona; quindi il peso maggiore ricadrebbe sulla Germania, seguita dalla Francia e dall’Italia. E i tedeschi non vogliono pagare ancora per la Grecia. Nessun Cancelliere che intenda essere rieletto può far loro ingoiare l’amara medicina e Angela Merkel sta cercando di temporeggiare tenendo sulla testa dei greci la spada di Damocle.
Questa divergenza di fondo con Christine Lagarde che vorrebbe una terapia choc, gestita poi più dal Fmi che dall’Eurogruppo e dalla Bce, è la prima delle fratture variabili. La seconda riguarda la cancelleria di Berlino e i governi che invece preferiscono concedere ad Atene altri due anni. In cima a tutti c’è Mario Monti, che vuole evitare come la peste il precipitare di una nuova crisi finanziaria attorno al catalizzatore ellenico. Lo stesso vale per Mariano Rajoy, il quale sa che le condizioni imposte oggi alla Grecia possono diventare il benchmark per concedere l’intervento del Fondo salva-stati nel caso della Spagna. Quanto a François Hollande, che ha appena perso la tripla A da parte di Moody’s (Standard & Poor’s gliel’aveva già tolta), minimizza. I tassi di interesse sono ancora bassi, appena il 2%. Ma la luna di miele con i mercati è finita da tempo.
“La Germania non vuole dire la verità”, innanzitutto a se stessa, ha scritto Stefan Kaiser sullo Spiegel. Tirare avanti così è pericolo, un haircut è inevitabile. Va ancora più in là il pugnace economista Hans-Werner Sinn, capo fazione dei duri e puri: “Una uscita temporanea della Grecia dall’euro, stabilizzerebbe il Paese e l’intera Europa”. Dunque, ci risiamo. Si prepara uno scenario simile a quello di giugno? Allora Mario Draghi riuscì a evitare la catastrofe anche a costo di provocare una frattura non sanata con la Bundesbank. Adesso le parole non basteranno. Quanto agli atti concreti, sono impediti dalla Germania.
Jens Weidmann ha ripetuto anche recentemente che lui non condivide non solo la terapia, ma nemmeno l’analisi di Draghi. I meccanismi tradizionali della politica monetaria funzionano, secondo il presidente della Buba; sono i governi dei paesi meridionali che non hanno fatto bene i compiti a casa e ciò crea sfiducia nei mercati, i quali si comportano in modo assolutamente razionale. Lo spread, insomma, è colpa dell’Italia, della Spagna per non parlar della Grecia. Nessun intervento della Bce può colmare il fossato. Nemmeno l’euro è una priorità assoluta: la Bce deve badare ai prezzi, la stabilità finanziaria viene dopo e la moneta da questo punto di vista diventa un fattore derivato.
Nel suo ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria, la Bundesbank sostiene che è la crisi dei debiti sovrani la minaccia principale anche per la Germania. La contrazione della crescita o la piccola recessione prevista per l’anno prossimo, non deriva dalla politica economica tedesca poco espansiva, ma dall’onda di piena che la pesante recessione italiana e spagnola getta al di là delle Alpi e dei Pirenei. Più divisi di così.
Tutto questo mentre la discussione sul prossimo bilancio, mille miliardi da spendere entro il 2020, è a un punto morto. David Cameron, il Premier britannico, vuole un congelamento e rispuntano le storiche divisioni sul sostegno alle lobby agricole. Ma, soprattutto, la discussione sta prendendo una piega ideologica, tra euroscettici ed eurofili, destinata a non portare da nessuna parte. Insomma, mentre si consuma nelle piazze e tra la gente l’inverno dello scontento, il più gelido probabilmente di tutti questi inverni di crisi (sono ormai cinque), i governi privilegiano i loro interessi nazionali. E gli eurocrati stanno perdendo la bussola.