Ai 433 deputati che hanno firmato l’ordine del giorno presentato da Francesco Boccia (Pd), la Tobin Tax introdotta dal Governo all’interno della Legge di stabilità è parsa un po’ troppo temperata: la proposta dell’esecutivo, infatti, prevede l’imposizione di un’aliquota dello 0,05% sulla negoziazione di azioni e sulle transazioni in titoli derivati. Sì, ma quali titoli? Tutti? Alcuni? Il rischio è di non colpire affatto quelle operazioni che, invece, andrebbero colpite. Il documento licenziato da Montecitorio, quindi, impegna il Governo a estendere significativamente la base imponibile. Resta a Palazzo Madama il compito di recepirlo. E’ proprio l’onorevole Boccia a illustrare a Ilsussidiario.net la ratio del provvedimento. «Per comprenderne la natura, occorre, anzitutto conoscere gli antefatti: la Tobin Tax, tanto per cominciare, è stata introdotta dal Governo su sollecitazione del Pd. In passato, almeno in tre occasioni diverse, tra il 2009 e il 2011, il Parlamento si era espresso sulla materia. Dando sempre parare negativo, per il voto contrario del Pdl che, all’epoca, aveva la maggioranza schiacciante. Siamo sempre stati sul punto di inserirla, ma non ce l’abbiamo mai fatta, mentre, contestualmente, siamo riusciti ad adeguare la tassazione sulle rendite finanziarie agli standard europei, ritenendo che l’abbassamento del carico fiscale sul lavoro sarebbe stato possibile solamente ridistribuendo il prelievo».
Incassato il primo successo, viene la parte più difficile: «Dopo che l’imposizione sulle rendite à stata elevata al 20% (anche se la media europea è del 25%) è riesploso il dibattito sulla tassazione relativa alle transazioni finanziarie. Questo Governo, sempre su sollecitazione del Pd, ha deciso di inserirla nella sua ultima manovra. Tuttavia, lo ha fatto dandole connotati troppo generici e caratterizzandola con alcuni errori». Ecco cosa non va: «Non prevede la tassazione sugli investitori esteri, ma solo sull’intermediario, quando sarebbe, invece, sufficiente una limitata modifica volta a decretare la nullità del contratto laddove la tassa non venisse pagata dall’operatore straniero; non tassa, inoltre, il cosiddetto high frequency trading, in grado di processare milioni di operazioni al secondo; la partita vera, infine, si giocherà sulla scelta dell’imposizione da applicare sui derivati regolamentati e su quelli non regolamentati».
Tutte queste modifiche erano state auspicate in sede parlamentare, alla Camera. Ma la Tobin Tax è stata approvata così com’è uscita dal Cdm. «Abbiamo chiesto, quindi, al Governo di garantire, rispetto alla discussione che alla Camera non è avvenuta, che la base imponibile fosse totale. E che, in particolare, non venissero esentati i derivati come, invece, riteniamo sia interesse di molte banche italiane. L’interesse del Paese, infatti, coincide con una finanza ancella dell’impresa, e non con quella speculativa».
Resta il fatto che il concreto potere vincolante di un ordine del giorno è pressoché nullo: «Questo è vero, sul piano tecnico formale. Tuttavia, l’ampia maggioranza con cui è stato approvato traccia la rotta politica al Senato. Dubito, infatti, che i partiti che l’hanno sostenuto alla Camera, a Palazzo Madama possano fare marcia indietro».
Non è che, alla fine, si sarà fatta tanta fatica per nulla? E’ opinione comune, infatti, che la Tobin Tax sortisce effetti esclusivamente nel caso in cui venga applicata a livello europeo se non, addirittura, mondiale. In caso contrario, l’ostacolo si potrà aggirare facilmente, spostando i propri flussi altrove. «E’ vero se la tassa è alta. Se è bassa, nessun operatore ha interesse a spostare i propri flussi. Mentre chi ha nel proprio portafoglio tanti titoli derivati, è incoraggiato a disfarsene per acquistare, magari, titoli di Stato per i quali la Tobin Tax non è prevista».
(Paolo Nessi)