Pochi, anche tra gli addetti ai lavori, hanno notato la pubblicazione, sulla Gazzetta Ufficiale del 22 novembre, del DPCM del 3 agosto scorso “Attuazione dell’articolo 8, comma 3, del decreto legislativo 29 dicembre 2011, n. 228 in materia di linee guida per la valutazione degli investimenti relativi ad opere pubbliche e del Documento pluriennale di pianificazione degli investimenti in opere pubbliche. (12A12337)”. Chi lo ha notato è stato scoraggiato dal lessico del titolo a leggere un documento che ha invece un contenuto molto piano: in ottemperanza a quanto già previsto dalla normativa di riforma del bilancio dello Stato (L. 196/1999), obbliga ciascun Ministero a fornire parameri di valutazione e criteri di scelta chiari e trasparenti per gli investimenti nelle sue competenze: il decreto è lungo perché in allegato contiene indicazioni specifiche su come tali direttive debbano essere fornite e sul lavoro analitico per giungere a esse.
La misura è, da un lato, un punto di arrivo e, dall’altro, un punto di partenza. Il primo mi riguarda personalmente e mi si consenta di ricordare perché. Mi riguarda anche il secondo non solo in quanto cittadino della Repubblica, ma concerne soprattutto le Parti sociali e le associazioni di promozione sociale – poste di fronte al quesito se partecipare alla formulazione di tali parametri e criteri o se lasciare che siano elaborati dalle amministrazioni con il supporto della comunità scientifica.
Andiamo brevemente al passato. I tentavi di razionalizzare la spesa pubblica, iniziando da quella per gli investimenti pubblici, risalgono, in Italia, all’età giolittiana. Il più completo avvenne nel 1982-85 con l’istituzione del Nucleo di valutazione degli investimenti pubblici (il progenitore dell’Uval – unità di valutazione – del Ministero dello Sviluppo Economico) e del Fondo investimenti e occupazione (Fio). Venni chiamato a dirigere il Nucleo non solo a ragione delle mie esperienze in Banca mondiale e dalla mia dimestichezza della manualistica internazionale pubblicata negli anni Settanta da Ocse, Unido e Banca mondiale, oltre al proliferare di quella di altri paesi (ma non dell’Italia). Era noto che avevo una schietta amicizia con David Stockman, di qualche anno più giovane di me ma dall’età di trent’anni autorevole componente del Congresso Usa, e allora Ministro del Bilancio degli Stati Uniti. Stockman stava lavorando a una normativa analoga, riuscì a farla approvare e da allora non è mai stata cambiata (anzi, è l’unica legge federale mai ritoccata in oltre trent’anni).
Il combinato disposto – direbbero i giuristi – della legge di riforma di bilancio e del DPCM appena approvato rendono obbligatoria l’analisi economica seguendo le tecniche ACB (analisi costi benefici) per tutte le operazioni d’investimento pubblico. La legge Stockman è più estesa: riguarda tutte le operazioni di spesa pubblica. L’intenzione della riforma del bilancio e del DCPM è di estendere gradualmente la valutazione quantitativa della spesa pubblica tramite analisi costi benefici dal conto capitale alla spesa di parte corrente, ossia all’intero bilancio delle pubbliche amministrazione. Ciò implica che la pubblica amministrazione ne acquisisca le essenziali competenze professionali. Ciò darebbe vita una spending review permanente e non ci sarebbe più l’esigenza di review periodiche e traumatiche.
Le vicende del 1982 sono state riassunte in un libro pubblicato da Il Mulino nel 1987 in cui si sottolineava “l’amarezza di chi ha ragione troppo presto”. Sta ad altri dire se circa trent’anni è un lasso di tempo adeguato o troppo lungo. Ora occorre guardare alle sfide per il futuro immediato. In primo luogo, i parametri e i criteri settoriali devono essere inseriti – come è prassi nel resto del mondo – in un quadro di “parametri nazionali” generali che riflettano obiettivi e vincoli di politica economica a medio e lungo termine: questo è uno dei punti su cui abbiamo avuto serie difficoltà nel recente (ora interrotto) negoziato sul bilancio dell’Unione europea per i prossimi sette anni. In secondo luogo, per la loro definizione è essenziale un lavoro tecnico specialistico di alta qualità, ma anche l’apporto della società civile e di rappresentanti di interessi legittimi.
In attesa della pubblicazione della registrazione del DPCM da parte della Corte dei conti, l’Uval, la Cassa depositi e prestiti e alcuni istituti di ricerca specializzati hanno cominciato a lavorare sui “parametri”. Il Cnel ha anche predisposto un documento di osservazioni e proposte che si sarebbe dovuto esaminare in ottobre, ma che è stato frenato da pulsioni (pare) particolaristiche. La situazione ottimale sarebbe sbloccare il documento Cnel e costituire un Gruppo di lavoro Cnel-Uval per passare la manualistica generale su cui costruire manualistica settoriale. Sono giunti inviti in tal senso da Banca mondiale, Nazione Unite, Ocse, Ue, i maggiori ministeri e le maggiori università.
I rappresentanti del volontariato e delle associazioni di promozione sociale, nonché quasi tutti gli esponenti sindacali, hanno espresso il loro supporto: c’è stata convergenzatra Cgil e Ugl. Non è più tempo di tergiversare: chi si vuole autoescludere (o pensa di non avere il necessario supporto tecnico specialistico), lo faccia, ma non tenti di spingere sul freno. Resterà isolato in un percorso ormai tracciato.