Sergio l’olandese. È come se due film fossero proiettati in contemporanea. Nel primo si vede il presidente del Consiglio seduto nello studio di Fabio Fazio che critica, pur con i suoi modi elegantemente moderati, i paesi dell’Unione che applicano trattamenti fiscali di favore, per attirare le società da altri Stati europei. E ne cita un paio: Irlanda e Lussemburgo. Ne dimentica uno, che invece è il protagonista principale del secondo film: l’Olanda. Infatti, proprio in quelle stesse ore è stata formalizzata una decisone che si aspettava da tempo: Fiat Industrial, cioè quanto rimane della Fiat dopo la separazione del settore auto, si fonderà con Cnh. Diventerà una società di diritto olandese con i vantaggi che questo comporta. La cosa funzionerà così. Verrà creata una holding in un paradiso fiscale, le Antille olandesi. Questa ne controllerà un’altra domiciliata in qualche parte in Olanda. Entrambe saranno però pure scatole e conterranno le società operative, gli stabilimenti ovunque siano in Italia, Stati Uniti, Canada o altrove. Il sistema darà dei vantaggi fiscali ragguardevoli agli azionisti; ovviamente darà degli svantaggi diretti all’erario italiano. Ma che volete farci? Non si può, come si dice, volere l’uovo e la gallina.



Allora, premesso e sottolineato che questo piano tenacemente voluto dall’amministratore del Lingotto, Sergio Marchionne, è perfettamente legale, si possono comunque fare alcune, modeste osservazioni. È possibile che il Governo, pur disponendo di un potere reale di moral suasion nei confronti dei poteri economici, si sia lasciato sfilare così un asset senza muovere un dito? La Fiat ha chiuso impianti, indetto referendum nelle fabbriche, disdetto accordi sindacali, promesso investimenti per 20 miliardi mai visti, e ora sceglie anche un localizzazione fiscale più vantaggiosa. Un qualsiasi altro governo dell’Unione, quello francese, tedesco (e perché no? olandese) avrebbe cercato di interloquire con un grande gruppo deciso a emigrare, avrebbe cercato di trattenerlo. Da noi non è successo nulla: ci si è limitati a registrare sui giornali la notizia. Siamo certi che questo sia il liberalismo giusto?



Dove punta Tabacci. Bruno Tabacci, parlamentare e assessore al bilancio del Comune di Milano, è un politico di lungo corso, di consumata esperienza. Sa da che parte tira il fumo. Ed è proprio per queste sue caratteristiche, per queste indubbie doti riconosciute da tutti, che ci si domanda come mai abbia scelto di cacciarsi nell’avventura delle primarie del Pd. Si sapeva fin dall’inizio che la partita si sarebbe giocata fra Bersani e Renzi, con Vendola a fare da terzo incomodo pronto a presentare il conto, a vendere caro il suo appoggio. Per gli outsider non c’erano possibilità di assicurarsi la posta. E infatti così è stato. Lui ha rimediato un 1,4%, ultimo classificato, dietro anche alla (relativamente nuova) Puppato. Qual era e qual è allora il calcolo di Tabacci? Difficile interpretarlo. Chi lo conosce assicura però che lui si è messo in corsa perché riteneva necessario, per la sua futura carriere politica, fare un bagno visibilità. Se era questo il suo obiettivo, è stato centrato: in base alla par condicio, in parte applicata anche alle primarie, è stato intervistato, ha partecipato al confronto in diretta su Sky con gli altri quattro concorrenti, è andato in tv infinite volte. Insomma, lo si è visto e sentito. L’operazione immagine è riuscita. Sarebbe ora interessante sapere dove investirà questo bottino conquistato con la figuraccia delle primarie: a Milano, per aver maggior peso in Comune dove non sempre è in sintonia con il sindaco e con il city manager? Oppure ha già in mente qualcosa per Roma dopo le prossime elezioni politiche?



Salotto caldo. Non ci sono stati annunci ufficiali. Si sa però che è durato cinque-sei ore l’incontro di Pietro Scott Jovine, amministratore delegato di Rcs (la casa editrice de Il Corriere della Sera), con i suoi principali azionisti il vista del Consiglio di amministrazione del 19 dicembre cui toccherà prendere decisioni strategiche per il futuro del gruppo. Dunque, se i protagonisti del cosiddetto salotto buono italiano decidono di dedicare una mezza domenica per parlare di affari vuol dire che i problemi messi sul tappeto sono davvero gravi e trovare il modo per venirne fuori è un rompicapo. E, sopratutto, non è gratis. Qualcuno sperava che Scott Jovine, ex capo di Microsoft in Italia, con la sua esperienza manageriale nella new economy, trovasse la bacchetta magica per reinventare il mestiere della vecchia case editrice che non riesce più a far soldi con la carta stampata. Ma evidentemente non è così. Scott Jovine, come il capo di qualsiasi filiale di multinazionali americane, non ha mai partecipato assieme a Bill Gates alla definizione delle strategie industriali della casa madre: si limita a venderne i prodotti sul mercato di sua competenza. Forse era troppo aspettarsi da questo signore un business progettato per il futuro dei media che nessuna casa editrice del mondo è ancora riuscita a individuare.

 

Gubitosi e le chiese. Sembra fatta per Mario Orfeo, attuale direttore de Il Messaggero, alla direzione del Tg1. Dal punto di vista professionale è un’ottima scelta, ineccepibile. Orfeo ha già fatto un’esperienza alla guida di un telegiornale, il Tg2, e ha fatto bene nelle due testate che ha guidato, Il Mattino e Il Messaggero dove è tuttora. Per indicarlo al consiglio di amministrazione, però, il direttore generale, Luigi Gubitosi, ha fatto il giro delle sette chiese: è andato dai vari partiti politici per chiedere il loro gradimento sul candidato. Una prassi che risale all’inizio della tv in Italia. Forse non poteva fare diversamente, chissà. Possiamo però chiedergli di smetterla di parlare della sua gestione della Rai come di un’attività puramente manageriale, senza inquinamenti politici?

 

A dopo. Come anticipato da ilsussidiario.net, è in vista un rinvio della vendita di TiMedia da parte di Telecom Italia. Se ne riparlerà quando? Dopo le elezioni, probabilmente. In campagna elettorale una rete tv con il suo telegiornale e i suoi talk show serve.

 

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