Cosa pensavo (e non ho cambiato la mia idea di una virgola) delle cosiddette “primavere arabe” che hanno portato alla deposizione di vecchie leadership arabe è noto: erano le primavere eterodirette del Dipartimento di Stato Usa, con Gran Bretagna e Francia ben contente di lanciarsi in “operazioni simpatia”, pronte a tramutarsi in investimenti. Nulla di illegale, per carità, ma non vendetemi la balla delle rivolte via twitter e della democrazia dal basso. Oggi, come la cronaca ci dimostra, l’Egitto sta rendendosi conto che forse il vecchio faraone Mubarak non era poi così male, visto che il presidente Morsi si è auto-attribuito poteri pressoché assoluti (manca solo che possa decidere che tempo farà) e il governo dei Fratelli Musulmani non è quel campione di democrazia che i media mondiali volevano spacciarci che fosse. Quindi, nuove proteste e piazza Tahrir che torna a eccitare i progressisti di mezzo mondo, perennemente alla ricerca di un punto g ideologico.



Bene, non sperate però che i potenti di turno si strappino le vesti per quanto sta accadendo, perché l’Egitto è entrato di diritto nel radar di chi non vede nei paesi i popoli che li abitano ma opportunità di investimento. Perché dico questo? Semplice, perché mentre Christine Lagarde sembra pronta alla guerra termonucleare globale sul nuovo salvataggio della Grecia, il Fmi appare invece estremamente conciliante con le condizioni da offrire al Cairo, tanto che il costo per finanziarsi sui mercati dell’Egitto è più basso di quello della Spagna!



Lunedì, infatti, il governo Morsi ha piazzato sul mercato oltre 640 milioni di euro di debito a un anno, il 60% in più di quanto previsto dal ministero delle Finanze, pagando un rendimento del 2,548%, contro il 2,8% che paga attualmente la Spagna sulla medesima scadenza. Peccato che per Moody’s, il rating del debito egiziano sia allo status di spazzatura B2, mentre quello spagnolo è Baa3. Ma si sa, ci sono rating e rating. D’altronde, che il buon Morsi non fosse un idealista a tutto tondo lo si era capito subito, visto che tra le prime mosse del suo governo c’è stata la ridiscussione del prestito da 3 miliardi di dollari con il Fmi, portato senza troppe lamentele e discussioni dall’organismo di Washington addirittura a 4,8 miliardi di dollari.



Certo, l’economia egiziana sta migliorando, la crescita è calata solo dell’1,8% nel 2011 e per l’anno prossimo qualcuno azzarda un’espansione del 3,2% (sembrano i calcoli da Paperopoli della troika sulla Grecia), ma un trattamento simile, oltretutto non per il più democratico dei governi, cozza un pochino rispetto agli strepiti della Lagarde appena si parla di Atene. Ma si sa, business is business e l’aumento di depositi in valuta estera sta facendo crescere le aspettative per un accordo rapido con il Fmi, soprattutto per quanto riguarda le banche locali. Ma perché l’Egitto emette debito in euro, direte voi? Semplice, perché da agosto in poi, quando si tenne la prima emissione denominata nella valuta europea, il pound egiziano si era indebolito dello 0,4% sul dollaro e addirittura del 2,6% sull’euro. La volatilità a un mese della divisa egiziana, in questo trimestre, è salita del 70%, il balzo più grande delle dieci monete mediorientali tracciate da Bloomberg, secondo solo allo shekel israeliano.

Insomma, serve stabilità, la stessa che si è persa con la rivolta del gennaio 2011, dopo la quale le riserve in moneta straniera crollarono del 50% e gli investitori stranieri scaricano securities governative, portando il rendimento del debito denominato in dollari all’8,79% sulla scadenza decennale. Oggi paga il 5,34%. Lo yield sui bonds denominati in dollari con scadenza 2020 è crollato di 253 punti base dal mese di giugno, quando venne eletto presidente Morsi, il quale ha fatto chiaramente capire quale sia la sua priorità: l’economia.

Le riserve ufficiali lorde sono cresciute di 400 milioni di dollari tra settembre e ottobre, toccando quota 15,5 miliardi di dollari, il tutto dopo aver ricevuto un prestito da 1 miliardo di dollari da Qatar e Turchia, a cui domani si aggiungerà un altro miliardo da parte dell’Emirato e a breve 4 miliardi dall’Arabia Saudita. Insomma, si emette debito in euro perché il pound egiziano è troppo volatile per le prospettive di crescita a lungo termine che interessano al governo e agli investitori stranieri.

Perché quindi questa mossa di Morsi? A chi giova nuova turbolenza proprio ora che il Fmi stava per cedere e gli investitori avevano fatto il pieno di debito all’asta? Ci sono quattro regole base per gli investitori internazionali in grado di fare scommesse ad alto rischio, regole legate proprio all’instabilità. Primo, la lealtà del brand. Ovvero, dimostrare supporto al Paese continuando comunque un certo livello di investimento, mantenere visibilità e costruire una campagna marketing che possa fidelizzare la gente (o il governo) in tempi di turbolenza. Secondo, tenere d’occhio gli assets sottovalutati per potenziali acquisizioni. Proprio grazie alla svalutazione del pound egiziano, molti assets verranno trattati a livelli bassissimi, divenendo quindi potenziali prede per chi vuole potenziare la propria presenza sul mercato. Terzo, rafforzare le partnership locali, visto che in tempi difficili e con una stretta creditizia, la liquidità occidentale – garantita a pioggia e a costo praticamente zero dagli interventi delle banche centrali – può fornire finanziamenti a breve termine per soggetti locali in difficoltà. Quarto, le multinazionali che si sono attrezzate in tempo con i cosiddetti “piani di mitigazione del rischio” possono far man bassa di quote di mercato, mentre i loro competitor stanno ancora approntando strategie difensive.

Fanno parte della prima categoria, senza dubbio, le aziende statunitensi che l’8 settembre scorso sono giunte in Egitto accompagnate da funzionari governativi Usa di alto profilo per gettare le basi di futuri investimenti e ingraziarsi il nuovo governo. Non parliamo di qualche funzionarietto di livello intermedio, ma di dirigenti del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, accompagnati dai manager di un dozzina di aziende Usa quotate tra le blue-chip a Wall Street, intenti a incontrare le loro controparti egiziane in quella che è stata descritta come la delegazione d’affari più imponente giunta in Egitto dalla proclamazione del nuovo governo.

«Guardiamo all’Egitto come un partner fondamentale nella regione», ha dichiarato dal Cairo Michael Froman, funzionario dell’Amministrazione Obama, la quale oltre a partecipare con 1,3 miliardi di dollari al prestito da 4,8 del Fmi, ha promesso 1 miliardo di sgravio del debito e 400 milioni di dollari di investimento per finanziare nuove piccole e medie imprese attraverso la Overseas Private Investment Corporation. Di più, attraverso UsAis, gli Stati Uniti forniranno tecnologia per centri di analisi e raccolta dati, amplieranno l’aeroporto del Cairo e miglioreranno la capacità nazionali di operare transazioni online. «Vi vogliamo qui, per investire e fare profitti», ha detto il ministro dell’Industria, Qandil, ai rappresentanti di industrie come Dow, ExxonMobil, Marriott, MetLife e Coca Cola.

Saranno anche Fratelli Musulmani, ma parlano come capitalisti a tutto tondo. Buon per loro e per gli Usa, che sanno come sfruttare le occasioni che si creano dando vita alle varie primavere in giro per il mondo, non come noi europei, dormienti idealisti dal cuore tenero. Non scomodate, però, la democrazia dal basso e twitter. È solo, soltanto, benedetto business.