Una condanna che fa un certo scalpore: l’agenzia di rating Standard & Pooor’s è stata riconosciuta colpevole dal tribunale federale australiano di aver in sostanza ingannato gli acquirenti gonfiando in modo positivo un prodotto derivato della banca olandese Abn Amro. In pratica, l’agenzia non avrebbe dovuto assegnare una tripla A a un prodotto che non valeva quella valutazione e che invece offriva più rischi che vantaggi. Il caso riporta l’attenzione sull’affidabilità delle agenzie di rating, da tempo sotto accusa. Secondo Sergio Bianchi, Ordinario di Metodi Matematici dell’Economia e delle Scienze Attuariali e Finanziarie, contattato da Ilsussidiario.net, «la colpa maggiore di Standing & Poor’s è stata quella di offrire agli investitori un prodotto che non erano in grado di gestire per la sua alta complessità». Si tratta, aggiunge, di un comportamento non etico dato che neanche gli esperti sono in grado di valutare i rischi reali di questo tipo di prodotti. Una sentenza dunque «che introduce un elemento di cui le banche e le agenzie dovranno tenere conto, ma che serve soprattutto agli acquirenti per capire che non devono fidarsi di tutto quello che viene offerto dal mercato finanziario».



Quanto è importante la condanna che ha subito Standard & Poor’s?

Questo pronunciamento della corte australiana è importante, soprattutto per la casistica del sistema anglosassone, che a differenza della nostra si basa molto sui precedenti. 

Riassumendo, S&P’s  stata condannata perché ha venduto come buono un prodotto che non lo era. E’ così?



Si tratta di prodotti altamente strutturati che si basano su dei portafogli costruiti da asset che si ritiene abbiano una elevata affidabilità in termini di credibilità. Bisogna però osservare che già quando fu messo in vendita questo particolare tipo di derivati ci fu molta perplessità per il livello di tripla A che fu assegnato da S&P’s, ma anche da Moody.

Cioè ci furono dei sospetti sulla bontà dell’operazione?

La valutazione di fatto era molto elevata rispetto al rischio che era incorporato nel portafoglio stesso. Se si andava a segmentare quel portafoglio si vedeva che in realtà ogni titolo compreso aveva un rating molto basso. Non si capiva bene quindi come mai da titoli che avevano singolarmente un rating non tripla A si ottenesse nell’insieme una valutazione più alta.



La banca olandese che li ha messi in vendita può essere considerata coinvolta in qualche modo in questa operazione gonfiata?

L’operazione della banca è sicuramente legittima dal punto di vista tecnico. Oggi si può scommettere su tutto, si possono inventare prodotti sofisticati quanto si vuole. Più che illegittimo è non etico offrire questi prodotti a una clientela che non è in grado di gestirne la complessità. Da un punto di vista formale e giuridico a mio avviso c’è una non eticità in questo modo di procedere.

Ci spieghi in cosa consiste esattamente questo comportamento non etico.

Neanche gli esperti sono in grado di valutare i rischi di questo tipo di prodotti, figurarsi le amministrazioni comunali piuttosto che statali come quelle australiane che li hanno comprati. Sono prodotti di una complessità estrema dal punto di vista della teoria che neanche i matematici finanziari che si occupano della valutazione di questi prodotti sono in grado di trovare un accordo sui modelli capaci di valutarne i rischi.

 

Secondo lei, se non ci trovassimo in questa crisi di una finanza che già ha rivelato poca trasparenza, questa condanna ci sarebbe stata lo stesso?

 

Probabilmente no, nel senso che oggi il sistema bancario e delle agenzie ha perso credibilità. Prima invece c’era una sorta di soggezione reverenziale. C’era fiducia in queste istituzioni, oggi invece è caduto un castello: con la crisi finanziaria si è aperta una discussione sul ruolo di queste agenzie e sulle banche. 

 

Che tipo di discussione?

 

Sostanzialmente si è rotto un paradigma: finché la finanza ha prodotto risultati nessuno si permesso di sindacare la bontà degli strumenti finanziari che venivano offerti al pubblico. Nel momento invece in cui si è visto che dietro questa enorme crescita c’erano valutazioni non affidabili, perché si sono sotto stimati dei rischi, oppure si è usato spregiudicatezza nell’offrire prodotti a un clientela che non era consapevole dei rischi, allora è venuto meno anche quel timore reverenziale verso questi mostri sacri, che in realtà l’hanno fatta un po’ troppo sporca.

 

Dunque siamo davanti a un precedente positivo con questa condanna.

 

Anche in Italia abbiamo il problema di diverse amministrazioni che si sono esposte comprando titoli derivati. Queste amministrazioni sono state invogliate mediante l’acquisizione di prodotti che all’inizio hanno generato flussi di cassa positivi, salvo poi procurare delle perdite. E’ chiaro che nel momento in cui una banca – soprattutto se può poggiare sul ruolo delle agenzie che premiano i suoi prodotti – mette in vendita un prodotto ha una informazione sul futuro andamento dei tassi e sulle variabili di gran lunga superiore a quella che può avere la controparte. 

 

Un gioco alquanto scorretto.

 

C’è una asimmetria informativa che naturalmente la banca sfrutta da un punto di vista legale. Nel momento in cui si firma un contratto si mette al riparo l’istituto che vende il prodotto salvo poi scovare nel contratto dei rischi non denunciati oppure dei prospetti che traggono in inganno. Credo che questo sia il punto forte della sentenza australiana. 

 

Siamo davanti a una maggior possibilità di trasparenza grazie a sentenze come questa?

Le banche che operano con questi prodotti sicuramente dovranno tener conto conto di questa sentenza, che introduce anche dal punto di vista degli acquirenti un passaggi decisivo.

 

Quale?

 

Il riconoscimento del fatto che nel momento in cui si stipula un contratto bisogna stare attenti a quello che non si dice. Il messaggio che viene dato a chi sottoscrive questi prodotti è che non tutto non sia così trasparente. L’acquirente adesso starà quindi più attento.