Parlando di crisi, si fa spesso riferimento al termine “exit strategy”. Mutuata dal lessico militare a cui purtroppo siamo divenuti familiari, in finanza l’espressione indica la possibilità di uscire da un investimento restandone più o meno indenni. Di exit strategy si è parlato molto in questi giorni sui mercati, ancor più perché gli investimenti in questione hanno senz’altro una connotazione nazionale e la tempistica del disinvestimento è stata piuttosto emblematica. Stiamo parlando del disimpegno francese in Grecia, o meglio della vendita nel giro di quarantotto ore delle partecipazioni bancarie di Société Générale e Credit Agricole in Geniki Bank ed Emporiki rispettivamente.
Société Générale aveva acquistato la maggioranza azionaria dell’allora Banca Generale della Grecia nel marzo 2004, rilevando la partecipazione del principale azionista all’epoca, il fondo pensione dell’esercito greco. A seguito dell’investimento il nome dell’Istituto era diventato Geniki, ma nonostante grandi attese – e grandi iniezioni di capitale – l’operazione non era mai decollata per davvero. Tutt’altro: secondo diversi analisti finanziari, per il gruppo al 29 di boulevard Haussman l’espansione nel bancario greco avrebbe generato perdite di circa un miliardo di euro. A queste si aggiunga che il prezzo di vendita (un “simbolico” milione di euro) prevede in aggiunta 281 milioni di ricapitalizzazione ante cessione e 163 milioni di finanziamento, sottoforma di sottoscrizione obbligazionaria, all’acquirente. Quest’ultimo, il fantomatico compratore, cercato un po’ ovunque per mesi, è la Banca del Pireo. Torneremo fra poco su questa compagine greca, prima però un’occhiata alla vendita di Emporiki da parte di Credit Agricole.
Il copione è molto simile. Il 17 ottobre, due giorni prima dell’annuncio di Société Génerale, Credit Agricole ha finalizzato la vendita di Emporiki ad Alpha Bank. Prezzo di vendita: un euro e la promessa di ricapitalizzare per 550 milioni di euro la banca ceduta. A questi si aggiunga, con una formula uguale alla rivale transalpina, la sottoscrizione obbligatoria di un bond da 150 milioni di euro emesso dall’acquirente e l’impegno a tenere aperte le linee di liquidità che al momento della firma la casa madre concedeva alla partecipata ellenica. Il risultato è che al netto dei 700 milioni di nuovo capitale e del bond, Credit Agricole lascia nelle casse di Emporiki un miliardo e mezzo di euro circa. A detta del comunicato stampa, i finanziamenti saranno rimborsati da qui al 2014 grazie alla garanzia di “attivi finanziari di qualità selezionati da Credit Agricole”. In soldoni – è il caso di dirlo – sommando il prezzo di acquisto alle iniezioni di capitale di questi anni più le perdite che l’istituto francese ha dovuto ripianare trimestre dopo trimestre, l’avventura greca sarebbe costata al Credit Agricole la bellezza di 8,7 miliardi di euro.
Non c’è bisogno di mettere mano alla calcolatrice per affermare che l’exit strategy, negoziata in larga parte nelle stanze dell’Eliseo, è costata cara. Ma cosa ha giustificato questa strategia? Quale fretta ha spinto a chiudere e, soprattutto, cosa era in ballo in questa trattativa tra Parigi e Atene?
Basta uno sguardo ai due acquirenti, Banca del Pireo e Alfa Bank, per sospettare che la posta in gioco fosse molto alta. A inizio 2012 le banche greche erano ricorse alla liquidità concessa dalla Bce e dalla banca nazionale per 73 e 54 miliardi di euro rispettivamente. A maggio, Atene riceveva l’accordo di Ue e Fmi per un secondo bailout; dei 130 miliardi di euro concessi, 18 raggiungevano le casse delle principali banche nazionali. Tra queste ci sono Banca del Pireo e Alfa Bank (a cui andavano 4,7 e 1,9 miliardi di euro), National Bank ed Eurobank (beneficiarie del resto dei 18 miliardi). I capitali freschi sono subito utilizzati per ripianare le perdite sui titoli pubblici e per garantire operatività agli sportelli presi d’assalto.
Insomma, il bancario greco è da mesi al centro di una girandola di soldi pubblici e un elemento non è passato inosservato: grazie ai miliardi Ue, il governo di Atene ha messo un piede nell’azionariato delle principali banche nazionali e attraverso un piano di ristrutturazione elaborato dal ministero delle Finanze, si è ritagliato un ruolo di playmaker. Da allora, il settore bancario inizia una lenta fase di consolidamento a lungo attesa: National Bank ed Eurobank annunciano un piano di fusione a inizio ottobre, mentre sul tavolo delle negoziazioni si apre anche il fascicolo della Banca postale ellenica.
Con lo sfilarsi delle banche francesi, il numero di istituti si riduce ulteriormente ed è questa, probabilmente, la chiave di lettura più completa dell’attuale risiko bancario; al prossimo tavolo di negoziazioni, Atene potrà contare su un sistema creditizio più compatto, mentre dall’altro lato i principali sponsor dell’Ue, Francia e Germania, avranno le mani più libere. Il governo di Parigi, infatti, separando una volta per tutte crediti ellenici incagliati e conti correnti transalpini, non avrà interessi nazionali da salvaguardare e guarderà, forse per la prima volta, con realismo al problema del debito sovrano greco. Si noti per inciso che puntuali sono già arrivate le aperture del presidente Hollande per una revisione dei patti fiscali imposti ad Atene e verso un accordo più orientato alla crescita.
Per Berlino, invece, la situazione è più complessa: non è ancora chiaro se e fino a che punto le banche tedesche possano assorbire le perdite legate a una svalutazione dei titoli greci a bilancio, ma la sostanza non cambia. Mentre i falchi della Bundesbank invocano rigore, le industrie tedesche continuano a vincere appalti e commesse con il governo di Atene, contribuendo – con pratiche commerciali spesso al centro di indagini e accordi stragiudiziali – ad allargare il buco nei conti pubblici della Grecia.
Ora che Parigi si è sfilata dalla crisi greca, la partita è a due. Berlino dovrà muoversi in fretta e trovare la quadra per le prossime tranche del bailout, pena restare col cerino in mano il prossimo anno, in piena campagna elettorale.
Ma in tutto questo l’Europa può davvero permettersi di restare a guardare? L’attuale stallo è drammaticamente accentuato dalla crisi, ma è in fondo l’eredità ambigua del trattato di Maastricht: dopo aver posto grande enfasi sui conti pubblici (con quale autorità oggi è evidente a tutti), nessun progetto ha sigillato una politica comune e il mercato unico europeo si è trasformato in un’arena di interessi nazionali a moneta unica. Il caso greco è il più disastroso, ma proprio per questo sui grandi problemi strutturali di Atene si gioca il futuro e la credibilità dell’Unione.