Obama resterà in carica altri quattro anni! Evviva, i mercati festeggiano! Insomma, mica tanto festeggiano. Tanto più che, appena certo della rielezione, il buon Barack si è visto recapitare un siluro da Goldman Sachs, la quale ha abbassato le stime di crescita per il quarto trimestre di quest’anno dall’1,9% all’1,5% e predetto un crollo del 15% dell’indice Standard&Poor’s nei prossimi due mesi in caso non si metta mano immediatamente all’annosa questione del “fiscal cliff”.



Insomma, i mercati non amano Obama? Non pensatelo troppo. La Borsa, si sa, ormai è un casinò nelle mani del trading ad alta frequenza, quindi i suoi giudizi contano fino a un certo punto, esattamente come le montagne russe degli spread obbligazionari. Ciò che conta, a mio avviso, è quanto in realtà fatto negli ultimi quattro anni da Barack Obama e di cui nessuno pare essersi accorto.



Al netto delle preferenze politiche e della simpatia personale, gli Stati Uniti stanno comunque preparandosi a tornare le prima economia del mondo, proprio grazie alla politica energetica compiuta in questi anni e alla silenziosa deregulation del settore posta in essere dall’amministrazione Obama, un capolavoro di lassez-faire. Al di là degli aspetti da fotoromanzo tipo la fotografia dell’abbraccio con la moglie Michelle o altre amenità che tanto piacciono ai giornalisti, nel suo discorso di re-insediamento, Obama ha detto chiaramente una cosa: «Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi lavorerò con i leader di entrambi i partiti per affrontare problemi che solo insieme possiamo risolvere, per esempio ridurre il deficit, riformare il codice fiscale e liberare il Paese dalla dipendenza di petrolio straniero».



Ecco il punto nodale: l’indipendenza energetica, un obiettivo che l’Amministrazione Obama non dico abbia raggiunto, ma per il quale ha gettato basi più che solide. Qualche esempio? La Royal Dutch Shell punta ad aprire un impianto per etanolo nella rinata valle dell’acciaio di Beaver County, vicino Pittsburgh, mentre la Dow Chemicals sta chiudendo i suoi stabilimenti in Belgio, Olanda, Spagna, Regno Unito e Giappone per spostare le operazioni sul propilene in Texas, dove il costo del gas naturale è frazionale rispetto a quello del resto del mondo, un terzo rispetto a quello europeo.

Tanto più che il mercato del gas non ha un mercato globale regolamentato vero e proprio, è di fatto locale ed è dettato dalle pipelines e dalla loro locazione e proprietà. Nel caso dell’Europa, una sorta di dittatura russa, visto che la sola Germania importa il 36% del suo gas da Mosca, mentre la Polonia il 48%, l’Ungheria il 60%, la Slovacchia il 98% e i paesi del Baltico il 100%. Insomma, Putin ha il potere di aprire e chiudere i rubinetti a suo piacimento. Tornando agli Usa, sono cinquanta i nuovi progetti nell’industria petrolchimica svelati negli ultimi mesi e un blitz di investimenti da 30 miliardi di dollari su etilene e fertilizzanti sta per essere concluso.

In cinque anni, la rivoluzione, forse l’unica realmente compiuta da Obama, come certifica l’American Chemistry Council. Ma non solo. A rivitalizzare l’industria Usa ci ha pensato anche il cosiddetto “Homecoming”, ovvero la ri-delocalizzazione dalla Cina agli States a causa dell’aumento del 16% su base annua degli stipendi dei lavoratori cinesi. Di più, il Dipartimento per l’Energia ha confermato la scorsa settimana che gli Usa produrranno 11,4 milioni di barili al giorno di petrolio, biocarburante e idrocarburi liquidi il prossimo anno, quasi allo stesso livello dell’Arabia Saudita e si pensa che nel 2014 gli Stati Uniti saranno il principale produttore mondiale e raggiungeranno il “sacro Graal” dell’indipendenza energetica prima del 2020.

A incidere positivamente anche la scelta europea e giapponese post-Fukushima di chiudere con il nucleare, mentre la Cina potrebbe tradursi nel cliente migliore visto che con 20 milioni di automobili in più in circolazione ogni anno, servono mediamente 500mila barili in più al giorno. Inoltre, il costo dell’etano – il materiale grezzo per polimeri, fondamentale per costruire oggetti di uso quotidiano – negli Usa è crollato del 70% dal 2008 a oggi, tanto che la Exxon e la Westlake Chemical stanno costruendo nuovi impianti, mentre in Giappone la Mitsubishi sta chiudendo i suoi e la Mitsui pare sulla stessa strada.

Ultima carta nelle mani degli Usa, lo scisto bituminoso, la cui produzione è salita a 2 milioni di barili al giorno dagli zero di soli otto anni fa: a Bakken, in Nord Dakota, già oggi si produce il doppio del petrolio convenzionale che si ottiene dal giacimento di Prudhoe Bay in Alaska. Gli scisti bituminosi sono sedimenti estremamente ricchi di bitume, da cui è poi possibile ottenere petrolio attraverso complessi e costosi procedimenti chimici, resi però profittevoli negli ultimi anni dall’aumento del prezzo del greggio estratto. E l’America è piena di questo nuovo oro nero: gli scisti e le argille bituminose contengono riserve per 2.600 Gbbl, di cui circa 2mila sul solo territorio degli Usa (Green River in Colorado, Uinta Basin nello Utah e Washakie Basin nel Wyoming).

L’America ha prodotto l’81% delle sue esigenze energetiche nei primi sei mesi di quest’anno, il livello più alto dal 1991, tanto che il Nord America raggiungerà – conteggiando anche le oil sands canadesi e il giacimenti sottomarini del Messico – i 27 milioni di barili al giorno, trasformando l’area in un nuovo Medio Oriente. Questo vuol dire fine della dittatura petrolifera dal mondo islamico, con una ricaduta netta per l’Europa e le sue scelte non strategiche che rischiano di consegnarne i destini energetici nella mani di Opec e Russia. Ma si sa, l’Europa a guida tedesca ha un’unica priorità, ovvero mantenere l’Europa debole e i cosiddetti paesi periferici sull’orlo dell’insolvenza per garantirsi un cross euro/dollaro debole che permette all’export di trascinare Berlino nonostante la crisi.

Peccato che il giocattolino ora si sia rotto e le continue balle sulle crisi sovrane, vedi la Grecia, stanno facendo lievitare l’euro e intaccando il vero motore dell’economia tedesca. La quale, «è rimasta finora ampiamente al riparo da alcune delle difficoltà riscontrate nel resto dell’Eurozona, ma gli ultimi dati suggeriscono che questi sviluppi stanno iniziando ad avere effetti anche sull’economia tedesca». Non lo dice il sottoscritto, lo ha detto il presidente della Bce, Mario Draghi, parlando a un convengo di banchieri tedeschi.

Come vi dico da almeno due settimane, il redde rationem è alle porte.