Vi ricordate Fazio? Ogni tanto rispunta il desidero di difendere il tricolore sui più alti pennoni delle nostre banche, delle imprese, del made in Italy. E ogni volta il copione si ripete: grandi dibattiti sui giornali, polemiche fra difensori del libero mercato e paladini dell’identità nazionale, e via dicendo. E ogni volta l’esito è scontato: lo straniero di turno si compra quello che aveva in mente di comprare, si porta a casa la preda che aveva messo nel mirino. Tanti saluti e alla prossima. È successo recentemente con Bulgari, Parmalat, Edison, tanto per citare tre esempi. In questo ultimo caso è stato addirittura uno Stato, quello francese, a dare la scalata al secondo produttore di energia nazionale. Roba inaudita, uno schiaffo al quale l’Italia ha risposto balbettando, con una sospensione temporanea del diritto di voti per le azioni in mano ai francesi poi tolta su pressione dell’Unione europea. Il problema è – ce lo diciamo da decenni – che il nostro non solo è un Paese sgangherato con politici non all’altezza, ma è anche un capitalismo senza capitali. Così quando arriva qualcuno dall’estero e mette sul piatto i soldi, quelli veri, riesce sempre ad aggiudicarsi la partita. All’estero non è così. La Francia, per esempio, ha difeso perisino lo yogurt della Danone quando ha scoperto che gli italiani dell’Ifi (Agnelli) ne avevano comprato il 6%; in Germania i tedeschi hanno fatto sistema impedendo alla Pirelli di prendere il controllo di Continental. Questo tanto per dire che la difesa degli interessi industriali-finanziari è ordinaria amministrazione nei paesi che sanno farla e possono permettersela.



L’Italia non fa parte di quel gruppo e ora è percorsa da timori che il suo sistema bancario, già largamente saccheggiato da stranieri, perda uno e/o due dei suoi grandi protagonisti bancari, Intesa e Unicredit, i cui valori di borsa sono stati falcidiati dalla crisi, hanno capitalizzazioni molto basse e un azionariato non solido. Quindi, se in giro per il mondo qualcuno vuole comprarsi un pezzo consistente del sistema bancario italiano, riesce a portarselo a casa per poco. Di qui la proposta, lanciata giorni fa da Massimo Mucchetti su Il Corriere della Sera, di fonderle per renderle un boccone più grosso e più difficile da ingoiare per uno squalo eventualmente in agguato. A condividere questo timore si è unito Ennio Doris, padrone di Mediolanum, quello che disegna con un bastone sulla sabbia la banca attorno a sé: anche lui ha detto che una scalata è possibile, ma che l’idea della fusione Intesa-Unicredit è da scartare.



Ora lasciando da parte il dibattito su questo eventuale, complicatissimo merger, resta il tema di impedire che il settore creditizio, vitale in qualsiasi economia, passi sotto controllo straniero. Già non parla più italiano quella che fino a non molti anni fa era la prima banca italiana, la Bnl ora dei francesi di Bnp; la popolare di Milano, acquistata da un fondo di private equity che fa capo a Bonomi, è già pronta a emigrare. Perdere Intesa e Unicredit sarebbe veramente un colpo grave, assolutamente da evitare. Ma come? Di italiani con soldi disposti a diventare azionisti per creare un nocciolo duro in difesa di questi asset non ce ne sono; anzi alcuni azionisti attuali, se appena si presentasse uno straniero con il portafoglio gonfio, sarebbero pronti a cedergli i rispettivi pacchetti per mettersi in tasca una plusvalenza. E allora? E allora in tutta coscienza c’è da chiedersi se il Paese non debba recitare un atto di dolore per come ha messo alla porta l’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Lui si è macchiato di un’infinità di errori, ma sulla difesa degli interessi italiani nel settore del credito aveva una strategia molto chiara ed efficace: le banche e il loro azionariato sono soggetti al controllo dell’istituto centrale. Che decide chi fare entrare e chi no. I fans del libero mercato hanno sempre storto il naso, ma l’italianità trovava un alleato solido. Che adesso ci tornerebbe utile.



Ride bene Bernabè? Il presidente di Telecom Italia, Franco Bernabé, ha annunciato che i primi nove mesi dell’anno si sono chiusi in linea con quelli dell’anno precedente, che l’indebitamento si è ridotto di un miliardo di euro e che la società sarà in grado di pagare il dividendo. Ottime notizie per gli azionisti che sono raggruppati in Telco la finanziaria che controlla appunto Telecom Italia e che fa capo a Mediobanca, Generali, Intesa e agli spagnoli di Telefonica (i più importanti, con oltre il 46%). Questi ultimi, però, non si sono lasciati molto incantare dalle belle parole di Bernabè, e hanno svalutato la loro partecipazione in Telco di 542 milioni di euro. Chissà chi ha ragione.

 

Il modello Lombardia. Allora sembra fatta: a concorrere alla carica di presidente (o governatore) della Regione Lombardia saranno Gabriele Albertini per il centrodestra e Umberto Ambrosoli per il centrosinistra con liste presentate all’esterno dei partiti. La Lega farà correre Roberto Maroni. Parlando dei primi due, si può dire che sono persone per bene che potranno far bene e non spaccheranno l’elettorato in due schiere di Guelfi e Ghibellini. Se è vero che il modello Lombardia anticipa quello che succederà in Italia, allora si tratta di un buon segnale. E anche di un’indicazione importante per il Parlamento e le forze politiche che si stanno scannando sulle riforme elettorale e istituzionale: non è evidente che questa possibilità di votare direttamente i candidati è vincente rispetto a qualsiasi altra formula?

 

Fort Knox. L’operazione è stata battezzata Fort Knox, il fortino che custodisce le riserve auree degli Stati Uniti. Ha portato a sgominare una banda di trafficanti di oro, a vari arresti e al sequestro di 163 milioni. Al blitz è stata data grande copertura mediatica, con interviste agli ufficiali della Guardia di Finanza. Benissimo. Ma che il proliferare dei negozi Compro Oro nascondesse qualcosa di sospetto, che celasse una rete di ricettatori, era noto da tempo. Bastava ricordare una trasmissione delle Iene sul tema di quattro anni fa.

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