Mentre il 12-13 dicembre a Bruxelles i Ministri economici e finanziaria dell’Unione europea si arrabetteranno sul buyback (riscatto) dei titoli greci, sul salvataggio delle banche spagnole e sul pronto soccorso di quelle cipriote, un fantasma di più ampie dimensioni si aggira sull’Europa: la possibile uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Dico “possibile” perché è nelle carte da tempo – da quando il 2011 European Union Act impone un referendum per la ratifica di qualsiasi nuovo trattato europeo che sposti poteri da Westminster a Bruxelles (e sono in discussione nuovi accordi su “trasferimento di sovranità” che farebbero proprio questo) – e perché c’è uno strisciante aumento di euroscetticismo britannico rispetto a un’Ue sempre più complicata e che non riesce a dare prova di coesione neanche nella messa a punto di un bilancio preventivo per i prossimi anni. Non dico “probabile” perché non ci sono ancora le condizioni per fare scattare il meccanismo: potrebbero, però, giungere presto in caso di rottura da parte della Gran Bretagna alla ripresa in gennaio della trattativa sul bilancio oppure ove (scenario, peraltro, quanto mai difficile da realizzarsi) arrivasse un accordo tra Francia e Germania su uno dei pilastri di quella che in gergo pubblicistico viene chiamata la banking union.



Che si tratti una prospettiva “possibile” è anche suggerito da un voluminoso (e costoso) lavoro dell’Economist Intelligence Unit (Eiu) sulle modalità della separazione e sui costi e i benefici (per la Gran Bretagna) di “rendere la Manica più larga”. Inoltre, mentre la Eiu di solito vende i propri studi a caro prezzo (raramente meno di 300 sterline al volume) o li invia unicamente alla sua cerchia di abbonati (di solito imprese e centri di ricerca con bilanci floridi), questa volta una sintesi ne è stata pubblicata sul settimanale The Economist in edicola il 7 dicembre.



Il settimanale, pur se spesso critico dell’eurocrazia vista come Leviathan che sputa norme su norme (spesso contraddittorie), ha una “vocazione europea”. La pubblicazione del lavoro, quindi, deve essere letta come un avvertimento del fatto che, secondo i conti dell’Eiu, una “Manica più larga” comporterebbe ai britannici costi ben superiori ai benefici. Già undici anni fa, nel volume Europe Simple, Europe Strong: The Future of European Governance, Frank Vibert, direttore dell’European Policy Forum, aveva avvertito che la ragnatela di regolamentazioni europee avrebbe strangolato l’Europa e costretto alcuni Stati alla defezione. Non è stato ascoltato. E il giorno del giudizio pare avvicinarsi.



L’analisi dei costi e dei benefici è già stata fatta dall’Eiu e riassunta da The Economist, dove i lettori possono studiarne gli aspetti salienti. A noi interessa non tanto sapere se i cittadini della Gran Bretagna staranno meglio o peggio in caso scelgano una delle tre principali strade per uscire dall’Ue (nella consapevolezza che la porta, una volta chiusa, non si riaprirà). Saremo, forse, particolaristici o provinciali, ma prevalgono dal nostro punto di vista le implicazioni per l’Italia.

Occorre ricordare che la Gran Bretagna è stato il primo Stato a proporre un assetto istituzionale per una futura integrazione europea: propose il Consiglio d’Europa, istituito da 10 Stati nel maggio 1949 e che ora ha 47 Stati membri e, con sede a Strasburgo, si interessa principalmente di diritti civili, cultura, inclusione sociale. Non prese, però, parte ai negoziati che portarono al Trattato di Roma, in quanto temeva eventuali cessioni di sovranità.

Sino al 1973, quando aderì a quella che allora si chiamava la Comunità Europea (CE), si confrontavano due posizioni tra i sei firmatari del Trattato di Roma: quella francese, che vedeva nell’ingresso della Gran Bretagna nel processo d’integrazione europea come un “cavallo Troia degli Usa” che avrebbero o asservito l’Europa ai loro interessi o fatto saltare il processo medesimo; quella italiana, che vedeva nel rapporto con Londra un modo per moderare l’influenza dell’asse franco-tedesco. L’Italia ha sempre tenuto un rapporto stretto con la Gran Bretagna dal 1973 anche dopo la creazione dell’unione monetaria (a cui Londra non aderisce). Tale rapporto è stato essenziale per distinguere Roma da quelli che a Bruxelles vengono chiamati i Latin Lovers.

Negli ultimi tempi, specialmente da quando è in carica l’ormai moribondo Governo Monti, i rapporti tra Roma e Berlino sono diventati più stretti, ma non si è scalfita la portata dell’alleanza franco-tedesca nella conduzioni della politica interna ed estera dell’Ue. Inoltre , la Gran Bretagna ha portato un po’ di sano pragmatismo in istituzioni tendenzialmente autoreferenziali e fondate su diritto napoleonico e germanico.

Se Londra esce dall’Ue, l’Italia rischia di essere uno dei perdenti: non avrebbe un partner da giustapporre all’asse franco-tedesco, diventerebbe (nella migliore delle ipotesi), il primo dei Latin Lovers.