Non c’è solo lo spread sui titoli pubblici: i differenziali che rendono l’Italia fragile e fanno dubitare sulle sue capacità di tenuta sono molti. C’è, per esempio, quello rappresentato dalla competitività. Secondo la Banca mondiale, l’Italia è al 73esimo posto su 185 paesi; nell’Unione europea stanno peggio solo Cipro e Malta. Questo indicatore, troppo a lungo sottovalutato, come ha ricordato Mario Monti, è formato a sua volta da un insieme di parametri: la produttività, il costo del lavoro unitario, le imposte sui redditi individuali e sulle imprese, l’efficienza della Pubblica amministrazione e dei servizi privati, la criminalità, la corruzione, eccetera, eccetera. In tutte queste classifica l’Italia si colloca in coda.
Guai a snobbare gli spread. A cominciare da quello tra i Btp decennali e i Bund tedeschi, che misura l’affidabilità del debito sovrano. Dobbiamo curarcene per le conseguenze sull’economia, i prestiti, i mutui, i risparmi delle famiglie, gli investimenti delle imprese. Perché è nello stesso tempo un termometro e un vettore di infezione. Non solo un’illusione, un magheggio dei mercati finanziari o addirittura un imbroglio, come ha detto Silvio Berlusconi, che pure è un imprenditore e ha quotato in borsa le sue aziende valutate in base a indici monetari dei quali conosce bene l’importanza.
Lo spread degli spread, che colpisce in modo orizzontale, riguarda il tasso di sviluppo. Quello italiano è inferiore rispetto alla media dell’Unione europea, dell’Eurolandia, dell’Ocse, del mondo intero. Lo è quest’anno, lo sarà l’anno prossimo, ma lo è stato da almeno un decennio, anche quando il differenziale con i Bund restava sotto i duecento punti. Si potrebbe dire che gli attuali tassi di interesse schiacciano il credito, soffocano gli investimenti, deprimono la produzione; mentre l’incapacità di rimettere in movimento la macchina economica genera a sua volta quella sfiducia che spinge in alto i tassi. Insomma, siamo in pieno circolo vizioso. Può darsi che basti poco per manipolare lo spread dei Btp, ma per sbloccare tutto il resto ci vuole davvero molto.
Berlusconi sarebbe stato molto più efficace, oltre che più veritiero, se avesse preso di petto il differenziale della crescita, rimproverandolo in parte a Mario Monti, la cui stangata ha aggravato la recessione anche al di là delle sue attese (le previsioni del Governo sono andate peggiorando di trimestre in trimestre); e in parte a se stesso (l’autocritica rende i leader più affidabili, non meno), perché negli anni dei bassi tassi di interesse, quelli precedenti al 2007, non è stato in grado di sciogliere lacci e lacciuoli. Basterebbe ricordare la riforma dell’articolo 18, per il suo impatto simbolico.
A chi gli chiede sviluppo (e l’invocazione arriva sia da destra sia da sinistra), Monti replica: “Ditemi come”. Di ricette ne circolano parecchie, ma nessun dottore della crisi ha trovato il viagra del Pil. Nemmeno Paul Krugman. Per la verità non ha capito bene perché si è dimesso Monti: non per colpa delle sue cure da cavallo, ma per manovre politiche molto più italiane. Tuttavia non ha torto il Nobel per l’economia nel condannare sul suo blog la spirale austerità-depressione evocando gli inutili e dannosi salassi praticati dai medici del medioevo. Purché sia chiaro che l’Italia ha perso la capacità di manovrare il bilancio pubblico perché paralizzata dal debito eccessivo.
Non è questione di sovranità sottratta dall’esterno, il limite è endogeno. Evocare il Giappone non serve a nulla, perché anche la terza economia del mondo è in stagnazione. Con la differenza che ha mantenuto una potenza industriale incomparabile con quella italiana. Forse sarebbe meglio guardare al Belgio che è entrato nell’euro con un debito peggiore di quello italiano e oggi è sotto quota 100% del Pil, senza aver distrutto lo stato sociale.
Monti sostiene che possiamo rimetterci in moto solo con un coordinamento delle politiche economiche nell’area euro. E tuttavia qualcosa di meglio il Governo uscente poteva fare. Il contraddittorio e pasticciato messaggio sulle tasse (lo scambio tra meno Irpef sui redditi bassi e più Iva annunciato da Vittorio Grilli e poi ritirato); i plateali errori sugli esodati; il flop delle liberalizzazioni; la rinuncia a intaccare lo stock di debito; gli annunci senza esito sulla vendita del patrimonio pubblico; il deludente esito della spending review. E stiamo parlando dell’agenda Monti. Poi c’è l’agenda Draghi secondo la quale bisogna spostare l’asse della manovra di bilancio dalle entrate alle uscite, cioè dalle tasse alle spese.
Si può risparmiare di più. Ma quale macelleria sociale! Nessuna persona di buon senso può davvero credere che su 800 miliardi di spesa pubblica, se ne possono ridurre solo otto. La spesa non è solo welfare e servizi sociali. È sistema di potere assistenziale e clientelare. Quello costruito nella prima repubblica ispirata dall’economia sociale di mercato e mai cambiato dalla seconda che inalberava la bandiera liberista. I tagli restano sempre apparenti, come negli anni d’oro del sistema democristiano, cioè riduzioni degli impegni di spesa non delle erogazioni effettive. Il grande imbroglio è proprio in questo meccanismo che nessuno ha avuto il coraggio di cambiare.
Insomma, difetti, debolezze, errori, non sono mancati al Governo “tecnico”. Ma attaccare su questi punti concreti comporta la necessità di offrire impegni altrettanto concreti agli elettori dei quali si vuole il voto. Cercare il nemico esterno è un vecchio espediente, troppo arrugginito perché funzioni ancora. Ecco perché alla fine della fiera i mercati fanno spallucce. Tanto, se questa è l’offerta politica, chiunque vinca le elezioni di febbraio, dovrà bussare alla porta della Banca centrale europea. E troverà affissa, nemmeno fosse la chiesa di Wittenberg, la lettera dell’agosto 2011 firmata da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi.