Caro direttore,

Quanto stretta sia la parentela fra Mario Monti e – a monte – la seconda moglie del leggendario “patron” della Comit, Raffaele Mattioli, è ancora “vexata quaestio”: Sandro Gerbi, custode delle memorie di Piazza della Scala, lo esclude. Né siamo certi che il premier uscente, dopo il voto di febbraio, sarà pigmalione o protagonista di “un governo di sinistra ex comunista con una componente moderata illuminata”: l’eurodeputato Pdl Mario Mauro, primo fra altri, lo vede leader di uno schieramento popolare europeo con una chiara ispirazione cristiana. Invece è indubitabile che all’Università di Torino l’esordio di Francesco Forte – successore diretto di Luigi Einaudi nell’ultra-prestigiosa cattedra di scienza delle finanze – sia stato più scintillante di quello di Monti, giunto un decennio dopo dall’Università di Trento. Anche la produzione scientifica parla a favore dell’economista valtellinese: Monti non ha mai scritto il “Manuale di scienza delle finanze” vergato da Forte nel suo “buen retiro” di Bormio, e neppure una trentina di libri.



Tecnico “militante”, Forte è stato ministro delle Finanze in un governo “parabalneare” (il Fanfani V): il massimo che fosse concesso a un economista quando governavano i partiti e non i mercati. Per tutti questi motivi sarebbe un errore non leggere il “cahier de doléances” sunteggiato da chi -sulle colonne de Il Giorno – battagliava già molti anni fa con Monti, giovane editorialista de Il Corriere della Sera. Certo, per ribattere ai suoi “j’accuse” gli ci vorrebbe Monti stesso: e ci auguriamo che prima o poi lo faccia. Per amor di confronto dialettico – che è il metodo de Il Sussidiario – proviamo nel frattempo a porre qualche nota (tecnico-giornalistica) a margine ai “dieci punti” del professor Forte.



1) Siamo d’accordo a metà sulla denuncia di fiscalità immobiliare “a casaccio”. Una fase eccezionale avrebbe politicamente giustificato una patrimoniale organica, non “mascherata” e fatalmente orientata alle prime case (e sugli immobili storici ha ragione Forte, ma solo con un catasto riformato e aggiornato). La stessa Francia di Hollande è comunque alle cronache per la fuga dei vip miliardari, liberi di cercare paradisi fiscali addirittura dietro casa, in Belgio. E se a Monti non è riuscito di concludere con la Svizzera lo stesso accordo – solo apparentemente “tecnico” – raggiunto da Germania e Gran Bretagna, vuol dire che i movimenti “bradi” di capitali restano un osso durissimo da mordere per qualsiasi governo italiano: lo era anche ai tempi dei governi pentapartito o Caf, politicamente più solidi, negli anni ‘80. Con lo spread a 500 e le banche in crisi di liquidità, coi grandi patrimoni finanziari non si poteva scherzare.



2) La riforma Fornero – non ce ne voglia il professor Forte – ha cambiato le cose nel mercato del lavoro italiano più di quanto abbia fatto l’abolizione della scala mobile negli anni ‘80. La Cgil ha preso di mira il ministro del Welfare non diversamente da quanto abbia fatto (culturalmente, moralmente) con Marco Biagi. Il Governo (tecnico) ha allentato le formulazioni originarie solo su pressioni concentriche delle Parti sociali, appoggiate dalla larga coalizione parlamentare. La vicenda degli esodati – al limite sostanziale del paradosso – ha mostrato la durezza, non la debolezza dell’esecutivo. L’articolo 18 ha 42 anni ed è stato creato dal ‘69 sindacale: un pezzo di storia del Paese, così come la Fiat lo è da quasi un secolo, da quando cominciò a costruire camion e armi per la grande guerra. Non era compito del “Monti 1” affrontare questi dossier strategici: sarebbe invece interessante vedere all’opera un “Monti-2” con una vera base parlamentare fedele all’“economia sociale di mercato” dell’Europa continentale. E sarebbe altrettanto interessante osservare un Monti “politico” trattare con Marchionne

3) La Cassa depositi e prestiti sta diventando una “nuova Mediobanca”, non una “nuova Iri”: ed è merito di Monti aver resistito alle pressioni di quei “capitalisti senza capitali” che vorrebbero che la Cdp restasse un carrozzone statale privo di strategie, senza azionisti come le Fondazioni. Conoscendo il professor Forte siamo certi che anche a lui non è piaciuta la parabola di Telecom (dagli Agnelli, a Colannino, a Tronchetti, a Mediobanca-Generali Telefonica). Se la Cdp rientra in gioco per la rete è perché la Telecom privata è passata di disastro in disastro e non può investire in una rete di nuova generazione, che invece è un asset-Paese. La Snam è stata sganciata dall’Eni per liberalizzare il settore dell’energia: non è colpa del governo Monti o della Cdp se non ci sono alternative per ricomporre la proprietà in modo equilibrato sul mercato. Il Ponte sullo Stretto, è vero, sarebbe un volano anche simbolico, come l’autostrada del Sole negli anni del boom: ma l’euro-austerity non ha lasciato alcun margine a Monti, che solo nelle ultime settimane ha potuto cominciare a battere aree come il Golfo persico, popolate di ricchissimi investitori sovrani.

4) A proposito di capitali internazionali: siamo convinti che a Monti (già chief economist della Comit, dietro Piazza Affari) la Tobin tax non piaccia. Ma nell’ultimo anno la tassa anti-speculazone è stata il feticcio mediatico – prima ancora che politico o tecnico – dell’Europa franco-tedesca: alle opinioni pubbliche tuttora inferocite contro “i banchieri” bisognava dare in pasto qualche simulacro di sanzione, a maggior ragione quando la ri-regolazione continua a languire. E per la diplomazia economica italiana non c’è spazio, oggi, per i “distinguo”.

5) Forte qui ci trova sostanzialmente d’accordo: la spending review è il vero insuccesso del governo Monti. E non è stata una grande idea affidarne l’elaborazione a un ultra-liberista ideologico come Francesco Giavazzi e la possibile realizzazione a un vecchio ristrutturatore aziendale della scuola di Enrico Cuccia.

6-7) Professor Forte, come lei ben sottolinea avendo fatto il ministro delle Finanze, il problema non è com’è fatto il redditometro: è come combattere l’evasione fiscale. Anzi: come assicurare una normalità fiscale minima al Paese. Il suo conterraneo – e vecchio compagno di fede socialista – Giulio Tremonti ha governato le entrate (e poi anche le uscite) dello Stato per oltre la metà degli ultimi diciotto anni: abbiamo l’impressione che si debba chiedere a lui, non a Monti, come e perché siamo finiti in un incontrovertibile stato di polizia tributaria per gestire un debito/Pil altrettanto incontrovertibilmente insostenibile.

8) Di Telecom abbiamo già detto: e crediamo che al sistema-Paese possa essere risparmiato l’epilogo di un’azienda-Paese che viene svenduta a un investitore che non ha caratteristiche né di solidità, né di strategicità. Diverso è certamente chiedere a Monti – Commissario europeo al mercato interno e poi all’Antitrust all’epoca delle grandi privatizzazioni italiane – quale sia il giudizio retrospettivo su quella stagione e quello odierno sul tema della nazionalità del controllo di grandi aziende del Paese. Qual è il punto d’equilibrio fra interessi dell’economia italiana (perché la chimera globalista è come minimo fuori moda) e attrazione di capitali? Non ultimi quelli che possono essere generati dal giacimento di ricchezza finanziaria della famiglie italiane e che non dovrebbero solo fornire munizioni ai grandi gestori globali per speculare in coro contro l’Italia. La riforma del sistema finanziario nazionale ancora bancocentrico è terreno su cui Monti si è spesso misurato da professore e da commissario Ue alla Concorrenza: gli manca ancora l’esperienza di governante nazionale.

9) Comprendiamo – e sostanzialmente condividiamo – il classico disagio dell’accademico italiano (europeo) di fronte ai “rating” globali universitari – peraltro molto cari alla cultura bocconiana – che tanto assomigliano a quelli di Moody’s e Standard & Poor’s: un oligopolio gestito con criteri spesso più opachi di quelli che insidiano i “concorsi all’italiana”.

10) Una delle ultime sortite di Monti – molto politica – è stata un’apertura a “forme diverse del finanziamento della sanità”, che in senso lato sono parse rilanciare un ventaglio di strumenti innovativi di welfare privato o sussidiario. Il premier ha incassato l’appoggio del Quirinale, ma guarda caso negli stessi giorni ha rassegnato le dimissioni: ancora una volta il problema – l’eterna Italia “illiberale” – non sembra lui.