Vacillante il tentativo di mantenere la proprietà italiana, si torna all’ipotesi di partenza. E’ sempre più probabile che l’operazione di acquisto di Alitalia da parte di Air France-Klm vada in porto. Lazard, banca d’affari consulente della compagnia, starebbe predisponendo, su mandato di Jean-Cyril Spinetta, il piano di fusione. L’azienda franco-olandese ha, finalmente, appianato i suoi problemi di bilancio e potrebbe reggere l’investimento. Abbiamo chiesto a Ugo Arrigo, professore di Finanza pubblica presso la Bicocca di Milano, quale sarebbe la soluzione migliore.



Come valuta l’ipotesi?

E’ la stessa prospettata 5 anni fa. Ma allora si preferì far intervenire i cosiddetti Capitani coraggiosi, accampando scuse di salvaguardia dell’italianità dell’azienda. Nel frattempo, si sono persi 700-800 milioni di euro, 7mila occupati e un po’ di clienti. Ben venga, quindi, l’operazione.



Perché la gestione, in questi anni, è stata così fallimentare?

Non è stata fallimentare. Tutto sommato, in termini di contenimento dei costi, si è fatto il possibile. Tuttavia, era sbagliata la premessa, il modello di business che si decise di adottare, privilegiando le tratte nazionali, nella convinzione che la scarsa concorrenza avrebbe consentito di ottenere margini significativi. Oggi, invece, è risaputo che solamente le tratte internazionali consentono di ottenere profitti. 

Non crede, in ogni caso, che l’italianità andrebbe preservata?

Ci sono aziende come Lufthansa che fanno acquisizioni in tutta Europa consapevoli del fatto che mantenere i marchi nazionali sia nel loro interesse. Ad esempio, ha mantenuto inalterato il nome di Swiss, azienda aerea svizzera di sua proprietà. Per il resto, non si capisce perché, in un’ottica di unificazione europea, sia necessario mantenere delle proprietà nazionali se non addirittura pubbliche.  



Lei applicherebbe questo concetto anche ad aziende quali Eni, Enel o Finmeccanica?

Per il sistema economico di qualsiasi Paese è necessario che ci siano aziende che operano in settori chiave, quali il trasporto aereo o ferroviario, l’approvvigionamento energetico e via dicendo. Ma se è fondamentale che tali azienda ci siano, non lo è il fatto che siano di proprietà di operatori nazionali o addirittura pubblici. L’essenziale è che in un sistema economico ci sia qualcuno che faccia bene quel mestiere. Non importa se sia un privato straniero, un privato italiano o, in astratto, anche lo Stato.

Lei, quindi, non esclude a priori che ci siano proprietà o partecipazioni pubbliche.

Guardi, in Svezia la ferrovie e le poste sono pubbliche. Ma funzionano bene. Ma perché già una ventina d’anni fa furono liberalizzate. Si tratta di aziende che sono obbligate e stare sul mercato senza alcuna protezione dallo Stato. In Italia, semplicemente, considerando i precedenti e la proverbiale incapacità del settore pubblico di gestire efficacemente qualunque azienda, di fronte all’aggettivo “pubblico”  viene spontaneo scappare a gambe levate. Lo Stato italiano, laddove si impegna in operazioni di mercato, fa tipicamente peggio degli operatori privati.

 

Come mai, in ogni caso, oggi Air France sembra più convinta a procedere con l’acquisizione rispetto al passato?

 

In passato ha avuto grossi problemi di bilancio rispetto ai quali dovrebbe essere in fase d’uscita, sulla via del risanamento.

 

Vede degli ostacoli alla fusione?

 

In questa fase convulsa, ove le priorità sono altre, potrebbe essere la volta buona che l’operazione riesca. C’è sempre in ballo, tuttavia, l’ipotesi di acquisto da parte Cassa depositi e prestiti. Alternativa che andrebbe scongiurata a tutti i costi.

 

Perché?

 

Si tratterebbe di un salvataggio statale mascherato. Fatto non tanto con i soldi dei contribuenti, quanto con quelli dei risparmiatori postali. Che sono pur sempre contribuenti. 

 

(Paolo Nessi)