Vendola e la contraerea. Ieri era incominciata male la giornata per Nichi Vendola. Era inorridito quando, sulle agenzie, aveva letto le parole pronunciate da Pierluigi Bersani durante la conferenza con la stampa estera: “Dopo il voto, che vincerò, aprirò comunque al Centro”. Orrore: un siluro con le sembianze di Pierferdinando Casini e soci era in arrivo, capace di affondare la nave Sel, o per lo meno, di intralciarne la navigazione accanto al Pd, ammiraglia del centrosinistra. Ma Bersani aveva fatto anche di peggio: non aveva escluso di poter affidare un posto a Mario Monti nel suo prossimo governo, anche se aveva precisato che “il ruolo si discute e si decide assieme”. Di nuovo orrore: Vendola ha fatto e farà tutta la sua campagna contro il professore e il suo liberalismo, ed ecco che Bersani non esclude di poterlo forse, eventualmente mettere in squadra. Quindi, se davvero nascerà questo governo di centrosinistra, e al presidente della Puglia toccherà un ministero, dovrà sedersi accanto a colleghi fino a ieri acerrimi nemici. Dovrà destreggiarsi fra mine e siluri. Roba da non credere, da rovinare davvero la giornata e non solo quella.
Ma la brutte notizie sono state compensate da una molto – per lui – positiva che ha raddrizzato la situazione. Dal Canada è arrivato l’annuncio che il governo di Ottawa ha deciso di annullare l’ordine di 65 caccia F 35 della Lockeed perché troppo cari e non all’altezza delle attese. Gli aerei da combattimento, il cui costo iniziale era stimato attorno ai 9 miliardi di euro complessivi, hanno visto il loro prezzo salire fino a 16 miliardi e su questa cifra i canadesi hanno detto “basta: faremo senza”. È quanto sostiene anche Vendola e non da oggi. L’Italia aveva in programma di acquistare 131 F 35, ma la manovra salva Italia del Governo Monti ne ha già tagliati una quarantina. Ora l’ordine è di 90 velivoli, per una spesa compresa fra i 13 e i 15 miliardi di euro. È prevista una ricaduta per questo investimento, perché parte del progetto industriale degli F 35 dovrebbe essere realizzato dalla Finmeccanica, nello stabilimento di Cameri (Novara). È una contropartita però incerta. E poi comunque la cifra complessiva rimane alta per un Paese costretto a risparmiare su pensioni, sanità, istruzione e via dicendo. Per questo Vendola sostiene a ogni occasione che quegli aerei non vanno comprati e i soldi usati per qualcosa di più utile e sensato. Forse ha ragione; certo l’antimilitarismo fa audience; la pace strappa applausi ai talk show televisivi. Quando poi però i potenti della terra fanno operazioni geopolitiche che li portano al controllo di fonti petrolifere strategiche (vedi Libia) chi non ha partecipato perché non aveva gli aerei sta a guardare.
Mezzo Corriere. Mercoledì 19 dicembre si riunirà il patto di sindacato della Rcs MediaGroup per decidere l’aumento di capitale del quale la società ha assoluto bisogno, visto che ha una posizione finanziaria netta negativa per 875,6 milioni di euro. Quel giorno si conosceranno (o almeno, si dovrebbero conoscere) anche i dettagli del piano di riassetto editoriale, sul quale finora sono circolate molte voci senza alcune conferma. Si sa comunque che i costi dovranno essere ancora tagliati e che la scure si abbatterà soprattutto sui periodici, in crisi irreversibile ormai da tempo. Un compromesso pare sia stato trovato sulla questione della sede de Il Corriere della Sera. Lo storico palazzo che ospita le redazioni di Corriere, Gazzetta dello Sport e di molti servizi centrali della holding, dovrebbe essere diviso in due. Il lato che affaccia su via San Marco, dove ci sono gli uffici del quotidiano sportivo, dovrebbe essere messo sul mercato, dopo aver trovato un accordo con il Comune che pretende un pedaggio di 7 milioni per dare l’ok al cambio di destinazione. Il quotidiano diretto da Ferruccio de Bortoli non sarebbe invece costretto a cambiare casa, a trasferirsi a Crescenzago, alla periferia dove ci sono dei palazzi di proprietà Rcs. Questo, per lo meno, fino alla prossima crisi che non si annuncia lontanissima: secondo voci interne, anche i conti del Corriere, la corazzata del gruppo, non sono più floridi come un tempo. In prospettiva per far cassa potrebbero servire altri mattoni.
Nostalgia dei boiardi. Ancora una volta Alberto Gagliardi, che è stato dirigente per anni di imprese delle partecipazioni statali, scrive a Giganomics sul tema della presenza pubblica in economia. Ecco la sua lettera.
«Credo che un confronto sulle privatizzazioni sarebbe salutare anche per fornire qualche piccolissimo suggerimento sulla questione di fondo per cui nessuno degli ultimi governi italiani è riuscito, non solo a dare soluzioni, ma neanche a ipotizzarle: come far ripartire la crescita di un Paese privo ormai di grandi imprese produttive dopo la “privatizzazione” (con annesse svendite a competitori stranieri) a mio avviso inutile (e oggi dannosa) delle industrie a partecipazione statale e il declino dei “padroni del vapore”, i quali sono sempre più tesi solo all’utile di bottega. Se il Novecento italiano ha visto l’affermarsi dello ”Stato imprenditore” ciò è dovuto anche alla pesante inadeguatezza al rischio, all’innovazione e alla fragilità finanziaria delle famiglie del nostro capitalismo. Se all’inizio del secolo scorso i governi liberali furono convinti fautori dell’intervento pubblico nell’economia non penso ciò sia dipeso dal predominio di ideologie stataliste: la nazionalizzazione delle ferrovie, la costituzione dell’Istituto nazionale assicurazioni e del Crediop furono dettate da una sorta di pragmatismo politico in un clima economico certamente non segnato dal pluralismo e dalla concorrenza, ma dal protezionismo.
Così come negli anni Trenta lo Stato italiano fu costretto a intervenire con l’Iri per impedire il dissesto del nostro sistema bancario e industriale a seguito anche del tracollo finanziario “privato” di Wall Street. Supplenza confermatasi nel secondo dopoguerra quando i grandi gruppi imprenditoriali dell’epoca confermarono le loro incapacità di tenuta rispetto alla necessità del rilancio economico e della ricostruzione del Paese. In realtà, la modernizzazione e l’emancipazione dell’Italia si deve principalmente all’Iri e all’Eni, in parte all’Enel, anche come leva per migliaia di piccoli e piccolissimi imprenditori privati, non certo all’Efim, ma neppure ai grandi capitalisti, come analizzano benissimo nei loro libri Massimo Mucchetti in “Licenziare i padroni?” e Gianni Dragoni in “Capitani coraggiosi”. Non credo che l’Italia, alla metà degli anni ‘80, potesse essere annoverata solo per propaganda fra le grandi potenze industriali del pianeta, dopo Usa, Giappone, Germania e Francia, ma davanti agli inglesi, senza l’apporto determinante che negli anni precedenti aveva fornito l’impresa a partecipazione statale (straordinaria esportatrice di tecnologia), la quale era spesso dovuta intervenire in soccorso dei privati falliti, persino nel caso dei produttori dei panettoni Motta e Alemagna.
Purtroppo l’obbiettivo di troppi industriali, a cominciare dalla Fiat, è stato la socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti tirando sfarzosamente a campare. Certo uno sport ostentato anche da moltissimi “boiardi” di Stato come ha certificato ”Mani pulite”, ma il prodotto finale per il Paese non è cambiato. Qual è stato il risultato delle privatizzazioni? Veri e propri regali. Riduzione del debito pubblico? Zero. Aumento delle liberalizzazioni? Zero. Dove lo Stato guadagnava il privato italiano guadagna senza alcun controllo reale (autostrade, telefonia, alimentare, servizi, alta tecnologia). Purtroppo non c’è notizia di aziende pubbliche risanate e rilanciate dal privato. Spero qualcuno non voglia avanzare il caso Riva. Le cose sono andate ancora meglio per i gruppi multinazionali.
Abbandonata la competizione industriale i nostri imprenditori vorrebbero “arditamente” lanciarsi nella tranquilla gestione dei servizi pubblici e nella loro finanziarizzazione borsistica. Tutti abbiamo sotto gli occhi il fallimento della gestione clientelare di molte aziende municipali. Resta il problema che l’obbiettivo di molti servizi pubblici essenziali, a partire dall’erogazione dell’acqua, non può essere il profitto, ma il miglior prodotto possibile al cittadino-utente al minor costo possibile per lui. Se affidati ai privati chi garantirebbe il controllo democratico di questi servizi?».