«La notizia che dovrebbero dare i giornali non è che il debito pubblico italiano ha sfondato quota 2mila miliardi di euro, ma che nel 2014 il rapporto debito/Pil raggiungerà il 132,2%». Ad affermarlo è Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma, dopo che il supplemento “Finanza pubblica” al bollettino statistico della Banca d’Italia ha reso noto che dall’inizio del 2012 il debito pubblico del nostro Paese è aumentato di 71 miliardi di euro, pari cioè al +3,7%.



Professor Piga, il debito pubblico italiano ha raggiunto quota 2.014 miliardi di euro …

E’ una notizia irrilevante e fuorviante. Il valore assoluto del debito non ha alcun significato economico. L’aspetto che conta, come è in grado di spiegare qualsiasi semplice banchiere, è il livello di esposizione di un debitore rispetto alla sua capacità di generare reddito. Quando una persona va in banca per chiedere un prestito, la prima cosa che gli chiedono è quale sia il suo reddito. Un debito da 5mila euro può essere pericoloso per alcuni e un’inezia per altri. L’unico parametro rilevante è quindi il rapporto debito/Pil, che per l’Italia da due anni a questa parte ha superato il livello storico più alto dal 1926. Pochi giorni fa l’Economic Outlook dell’Ocse, capitanato da un economista di valore come Pier Carlo Padoan, ha posizionato il rapporto debito pubblico/Pil dell’Italia nel 2014 al 132,2%. Un livello così facciamo fatica a rintracciarlo nelle serie storiche.



Quali sono le cause di questa tendenza al peggioramento?

L’Italia ha un duplice problema nei confronti dei suoi creditori: negli ultimi 12 anni abbiamo avuto un tasso di crescita medio negativo, quindi siamo strutturalmente deboli; il nostro tasso di crescita nel 2013 per la terza volta consecutiva avrà il segno meno. Siamo inoltre in una fase ciclica, in cui mostriamo la nostra incapacità di gestire il ciclo economico. Non riusciamo a creare futuro per il Paese e a gestire il presente del Paese con la politica economica.

Per quale motivo?

Non ci rendiamo conto che il rapporto debito/Pil non cresce perché sale il debito, ma perché non sappiamo più fare crescita. E’ questo che deve generare allarme, perché significa che non stiamo facendo le riforme strutturali giuste, che non sappiamo fare la politica economica anti-ciclica e non riusciamo a capire che le politiche di austerity in un periodo di recessione sono un errore. Non mi riferisco soltanto ai governi italiani che si sono succeduti dal 2000 a oggi, ma anche a questa Europa che a differenza degli Stati Uniti d’America continua a ostinarsi a generare povertà.



Davvero gli Stati Uniti stanno meglio di noi?

Il governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha annunciato una vera e propria rivoluzione ancorando esplicitamente la politica monetaria e i tassi di interesse al raggiungimento di un obiettivo di abbassamento della disoccupazione dal 7,8% al 6,5%. E’ qualcosa che in Europa non dibattiamo nemmeno, pur avendo una disoccupazione superiore all’11%. In questo modo stiamo mettendo a rischio un incredibile investimento istituzionale che abbiamo compiuto dalle macerie della Seconda guerra mondiale.

 

Per quale motivo allora l’austerity è considerata come una soluzione?

 

Il Governo Monti si è trovato con il problema di rassicurare l’Europa sul fatto che certe politiche “allegre” portate avanti in passato non sarebbero ritornate. La colpa di queste ultime va ai governi precedenti, e non certo a Monti. Un uomo della credibilità del nostro presidente del Consiglio avrebbe potuto spenderla molto meglio, gestendo la politica economica a favore dell’Europa e del Paese. Non lo ha voluto fare perché evidentemente si è reso conto che non glielo avrebbero permesso. Si è dimenticato, però, che a un uomo come lui la Germania avrebbe concesso tantissimo. Monti ha dimostrato abbastanza coraggio, ma in situazioni eccezionali abbastanza non basta.

 

Che cosa avrebbe dovuto fare?

 

Battendo i pugni sul tavolo, avrebbe subito ottenuto la possibilità di aumentare il debito pubblico, riuscendo a pagare le piccole imprese che stanno attendendo il versamento dei crediti della Pubblica amministrazione. Avrebbe inoltre potuto mettere all’asta nuovi titoli di Stato, per girare immediatamente la liquidità alle aziende. Ha preferito non adottare queste misure, perché questo avrebbe voluto dire il fatto di riconoscere il credito commerciale e farlo diventare un credito di mercato, con la conseguenza che sarebbe entrato nelle statistiche ufficiali.

 

Lei critica le politiche di innalzamento delle tasse volute dall’Ue, ma nell’Europa scandinava le imposte sono molto più elevate che in Italia eppure le imprese stanno bene …

 

La chiave del successo delle economie scandinave sono gli enormi investimenti in competenze, la correttezza, la mancanza di corruzione e di conflitti d’interesse della forza lavoro pubblica. Tutti obiettivi che richiedono una forte volontà politica e del tempo. Nel Regno Unito, Margaret Thatcher ha rivoluzionato il settore pubblico nel giro di 15 anni. Prima dei suoi governi predominavano dei sindacati non interessati agli interessi dei cittadini contribuenti, che coprivano le scorrettezze, le assenze, la pigrizia di tanti lavoratori, le pratiche scorrette di assunzione degli amici.

 

Proprio come in Italia…

 

Margaret Thatcher ha combattuto tutti questi malcostumi e ha cambiato la qualità della forza lavoro pubblica. Nei Paesi scandinavi, ormai da 300 anni, sono state create delle regole del gioco tali per cui quando entri nella Pubblica amministrazione sei onorato e lavori per i tuoi cittadini. Non diciamo quindi che occorre spendere di più perché lo fanno nel Nord Europa. Occorre prima compiere la rivoluzione svedese, riformando la Pubblica amministrazione, e poi decidere se aumentare la spesa pubblica o diminuirla.

 

(Pietro Vernizzi)