Nel 2013 a tutti apparirà chiaro che la globalizzazione ha cambiato di segno. Da crescita inarrestabile dei paesi emergenti e da lenta inesorabile discesa del potere economico e militare degli Usa, essa si è disvelata fragile dinanzi all’emergere di una crisi economica mondiale completamente nuova rispetto a quelle del 1907 e del 1929: una crisi a mercati aperti e con un intreccio tra crisi finanziaria e crisi industriale. La prima per eccesso di rischio, di indebitamento e di deregolamentazione, dinanzi alla quale solo le banche cooperative e popolari hanno saputo opporre una resistenza coraggiosa per via del loro diverso statuto sociale. La seconda crisi, quella industriale, è di proporzioni enormi: è una crisi di sovrapproduzione per aumento della produttività del lavoro per via tecnologica e per disoccupazione strutturale. Ma la  sovraccapacità produttiva si è scatenata  per via del basso tasso di crescita dei mercati interni europei e non europei.



I bassi salari e i bassi consumi e l’emergere di una povertà nuova, a macchia di leopardo, sono state le cause della sovraccapacità produttiva: recenti dati dimostrano che la povertà avanza anche in Germania e con proporzioni inquietanti, che tutto si fa per tenere nascoste. Di qui le spinte protezionistiche che sono via via aumentate con la discesa della crescita in Cina e in India e in tutto il mondo emergente, Brasile compreso. Solo l’Australia e il Sud Africa sono, sinora, non toccati da una crisi devastante, ma il loro potere di riaggregazione industriale e di rilancio della domanda mondiale è troppo tenue per invertire la rotta.



I recenti dati della Bce rendono manifeste tutte queste tendenze e sottolineano la tenuta consistente nell’Eurozona dei dati sulla disoccupazione che non scenderà mai, sino al 2014, sotto il tetto del 10%. E va ricordato ciò che affermavano i grandi economisti della scola di Cambridge che avevano visto sfilare le orde nere e brune sotto i loro occhi: sopra il 10% la disoccupazione pone in pericolo la democrazia. Le avvisaglie in Europa non mancano, dalla Grecia ai Paesi Bassi.

La novità che appare all’orizzonte, tuttavia, è la nuova crescita ormai evidente degli Usa. Per ragioni interne, per via di una decisa e lineare politica keynesiana che ha nella Fed del grande economista Ben Bernanke, la punta di lancia, e per via della scoperta di nuovi immensi giacimenti di idrocarburi nel cuore degli Usa, che hanno dato il via a una massa colossale di investimenti e di occupazione. Ma gli Usa stanno anch’essi dando un nuovo volto alla globalizzazione. Guardano decisamente all’Asia, all’Asia tutta intera e non alla Cina.



Hanno firmato un trattato militare con l’Australia un anno fa circa, che sancisce l’accordo per il mercato unico più grande del mondo: il Trans Pacific Pact, che unisce le nazioni rivierasche del Pacifico dal sud-est e dal far-est da un lato e dal Cile al Perù al Mexico al Canada dall’altro: miliardi di lavoratori e di consumatori. Nota importante: la Cina ne è esclusa e il Vietnam,  suo nemico storico, ne è incluso: suonano venti di crescita ma anche di una nuova guerra fredda cino-nord americana nel contesto di un deciso e inarrestabile spostamento dell’asse della crescita mondiale verso il Pacifico tutto intero, sino all’Oceania.

In questo contesto, l’Europa continua a essere un gigante economico, è vero. Ma con i piedi di argilla. La decrescita continua a prodursi: i mercati interni continuano a restringersi per un colossale spostamento di ricchezza dal lavoro al capitale, aggravato dalle controriforme  liberiste antipopolari del mercato del lavoro foriere di disoccupazione e non di occupazione, per lo più frutto della stessa sinistra politica e troppo spesso appoggiate da un sindacato subalterno. Crollano gli investimenti e la  Bce, creata su modello della Bundesbank e non della Fed – ossia un banca federale per un continente federale, che potesse quindi agire per governare diversi tassi  di produttività e diversi deficit commerciali -, non può opporsi come dovrebbe all’egemonia deflazionistica tedesca.

Tale politica, dettata da fondamentalismo ideologico che fa un feticcio del debito pubblico,  uccide la crescita e lo sviluppo europeo. Lo spreco pubblico non va confuso con la spesa pubblica che, unitamente all’economia comunitaria e sussidiaria, è oggi l’unico modo per incentivare il rilancio degli investimenti e dell’occupazione. Se così non si farà l’Europa diverrà una stella cadente e di ciò i primi a pagare il prezzo saranno i lavoratori.

Questo declino  dell’Europa, nano politico, per via egemonica teutonica, si riflette nell’assenza di ruolo dell’Europa dinanzi alle tragedie mediterranee, alla sua assenza diplomatica mondiale, alla caduta della sua vita culturale, umanistica, che è stata sempre, come ci insegna il Sommo Pontefice, il cuore dell’Europa. Solo riformando la rappresentanza europea, ossia dando potere al Parlamento e non alla Commissione non eletta, che blocca tutte le leggi votate che non siano copie delle sue direttive, si potrà invertire la marcia e pensare a una Europa della crescita e dello sviluppo.

In questa luce occorre anche ripensare a una riforma delle istituzioni di rappresentanza europea in cui trovino posto anche il  lavoro organizzato e quindi le forze sindacali, ridisegnando il profilo di un continente federale e solidale che realizzi il sogno degli Stati Uniti d’Europa con una forte valenza sociale.