Continua la riflessione sull’euro de Ilsussidiario.net in compagnia del Professor Giuseppe Guarino, esperto giurista, già ministro delle Finanze e dell’Industria. Dopo aver spiegato nella prima parte di questa intervista come negli ultimi venti anni l’Italia sia precipitata nelle classifiche di crescita europee e averne sviscerato le cause, si tratta ora di capire come poter “svoltare” per non precipitare nella crisi.
Professore, stando alla situazione che si è creata e che abbiamo analizzato in precedenza, cosa conviene fare?
Vi è una acquisizione alla quale non si può rinunciare. È il mercato unificato. Il mercato europeo è equivalente a quello Usa. È il più ricco del mondo se nel cambio l’euro prevale sul dollaro. Nel caso inverso è il secondo. Le previsioni che erano state fatte sull’incremento del Pil che sarebbe derivato dall’eliminazione delle barriere doganali si sono rivelate esatte. Effetti favorevoli sono stati riscontrati per qualche anno dopo il 2004 a seguito dell’ammissione all’Unione di 10 nuovi Stati. Se il disegno europeo fosse stato attuato secondo il disegno originario, con un’area economica unificata e con un mercato con una unica moneta con valore legale, l’euro per l’appunto, la partecipazione alla moneta sarebbe stata obbligatoria quale conseguenza naturale della partecipazione al mercato. L’Unione sarebbe stata “economica e monetaria”.
Le cose però non sono andate così…
Sì, il disegno è stato abbandonato, come ho già spiegato, nel corso delle trattative che portarono alla stipulazione del Tue. Gli artt. 109 K, nn. 1, 2, 3, 4, 5, 6, l’art. 109 L, nn. 1, 3, 4 e altri del Tue riconoscono due categorie distinte, entrambe di carattere generale, quella degli Stati “con deroga”, che conservano la moneta nazionale, e “senza deroga”, quelli che partecipano alla moneta comune, l’euro. Se la partecipazione all’euro costituisce l’effetto di una decisione volontaria, non si vede perché non si potrebbe rinunciarvi.
Meglio allora uscire dall’euro.
Gli Stati dell’Unione con deroga devono rispettare i parametri del 3% per l’indebitamento e del 60% per il debito e sono egualmente soggetti alla procedura per i disavanzi eccessivi di cui all’art. 126 Tfue (Lisbona). Uscire dall’euro rimanendo nell’Unione non comporta dunque di per sé nessuna variazione, sempre che si esiga e si ottenga che le norme del Trattato ricevano ferma e integrale applicazione. Una variazione importante si avrebbe sotto altri profili. Lo Stato che rinuncia all’euro riacquista la sovranità monetaria. A questo punto, prima di procedere oltre, bisogna far chiarezza su un aspetto pregiudiziale. Fino a che punto gli Stati dell’Unione, o alcuni di essi, sono disposti a mettere in comune la sovranità politica? Dalla risposta, e dalle sue implicazioni, dipendono vantaggi e svantaggi di qualunque soluzione sia astrattamente prospettabile.
In che senso?
Le implicazioni della messa in comune della sovranità politica (o di una parte della stessa) consistono nel principio della “democraticità” e nel modo in cui la stessa deve essere intesa. La “democrazia” è uno dei valori fondanti dell’Unione (art. 2 Tue, Lisbona). L’espressione deve essere interpretata in conformità al significato accolto dalla costituzione degli Stati membri. In concreto, “democrazia”, ferma la garanzia della più ampia ed effettiva libertà individuale, comporta che vi sia almeno un organo, individuale o collettivo, detentore dei poteri politici di ultima istanza, che tragga la sua legittimazione da un’elezione da parte di un corpo elettorale, al quale partecipino tutti i cittadini del gruppo dei paesi che decidono di integrarsi, in posizione di eguaglianza, e che manifesti la propria volontà in una medesima occasione e sulla base di un’unica legge elettorale. Se questo principio non è accolto (e i Trattati Ue e Lisbona non vi si uniformano) vige la regola della “attribuzione”, per effetto della quale l’Unione e per essa gli organi specificamente prestabiliti, agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che sono attribuite nei Trattati dagli Stati membri per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti (art. 5 Tue, Lisbona).
Perché tutta questa premessa?
Se la si tiene ferma si comprende la differenza tra l’euro e tutte le altre monete. Dal modo in cui la moneta viene gestita dipende la sua affidabilità sui mercati. Per tutte le monete la gestione è affidata a due organi, tenuti a operare in modo coordinato, l’uno, la Banca Centrale del Paese, competente per gli aspetti monetarie e valutari, l’altro, il Governo, che copre tutte le altre aree della convivenza. I poteri del governo sono “politici”, quelli della Banca centrale sono di una discrezionalità latissima, prossima alla politica. La gestione dell’euro si differenzia perché manca del tutto l’organo politico.
Ma c’è la Banca centrale europea.
Essa è vincolata a un obiettivo prioritario, quello della stabilità dei prezzi. Sostanzialmente il suo potere è assimilabile più a un potere lato, ma tecnico, che a un potere di lata discrezionalità. L’affidabilità dell’euro poggia su una norma rigida. Quindi dell’adeguatezza della stessa e della sua certezza. Non è la stessa cosa se la norma fissa il limite dell’indebitamento al 3% o allo 0% e se la norma viene osservata con scrupolo ed esattezza ovvero se può essere variata persino in modo arbitrario, da organi privi di legittimazione dominante. Riflessioni di questo tipo sono normalmente trascurate, ma sono essenziali per decidere cosa convenga fare. Se si rimanesse nell’ambito delle discipline attuali, la prognosi sui destini dei paesi singoli, compreso il nostro, che già si trovano in difficoltà, e indirettamente dell’area euro nel suo complesso, non può essere che la più pessimistica.
Cosa vuol dire questo?
Il ritorno al regime della legalità con definitivo abbandono del vincolo del bilancio in pareggio non sarebbe più sufficiente per venire fuori dalle difficoltà. Sarebbe necessaria una crescita tale che offra margini per rianimare le economie destrutturate dalle costrizioni imposte negli anni trascorsi, che sono state per 15 anni quelle del pareggio del bilancio, per i 6 anni antecedenti quelle della convergenza. Fattori produttivi, nel passato esistenti od operanti, sono andati distrutti o dispersi. Sono quantificabili sulla base dei numeri delle imprese che hanno smesso l’attività, dei disoccupati, degli emigrati, degli abbandoni scolastici, e così via.
L’Europa quindi così com’è non funziona.
Si parte oggi non da condizioni fisiologiche, ma da uno stato degradato, con un debito pubblico che per gli Stati più complessi, compresi quelli in migliori condizioni, supera di 20 punti e più il limite del 60%. Ogni Stato dovrebbe realizzare, all’inizio del nuovo corso, un ritmo durevole di crescita che, escluso ogni maggior carico dovuto a manovre dei mercati finanziari, garantisca il pagamento di tutti gli interessi conseguenti al più elevato debito e offra un ulteriore margine di almeno il 2%. Obiettivo poco credibile.
Eppure sono stati studiati diversi strumenti contro la crisi: Super-Bce, Fondo Salva-Stati, Programma Omt…
Tutte queste misure, quand’anche per una parte si sostituissero i prestiti con donazioni, avrebbero effetto procrastinante (un equivalente dell’accanimento terapeutico), non risolutivo. In quest’ottica il ripristino della legalità (art. 126 Tfue in luogo del Fiscal Compact o di altre misure simili) costituirebbe un necessario primo passo. Una misura che nel 1999 avrebbe consentito agli Stati ammessi all’euro di riprendersi dalle costrizioni della fase della convergenza. Oggi, non più sufficiente.
Ma oggi come oggi si può tornare indietro?
Bisogna prepararsi a uscire dall’euro e riacquistare la sovranità monetaria. Dovrebbe essere concordato il cambio tra la riacquistata moneta e l’euro. Le condizioni non potrebbero essere le stesse del 1999. Se i paesi si vedono costretti ad abbandonare l’euro è perché l’euro non ha mantenuto le sue promesse. Di più, sono state commesse gravi violazioni dei Trattati. Si dovrebbe partire dalle condizioni del 1992, anteriori alla fase della convergenza, non da quelle del 1999.
Sbaglia chi ritiene che uscire dall’euro sarebbe più dannoso che restarci? Non ci sarebbero danni nel lasciare la moneta unica?
Anche assumendo un cambio favorevole con l’euro, l’esercizio solitario della sovranità monetaria esporrebbe a rischi uno Stato a economia di mercato con una popolazione che si aggiri sui sessanta milioni di unità. Lo dimostra l’esperienza dei due decenni dal 1970 al 1990. Il mercato internazionale ha oggi assunto una dimensione globale. Vi operano Stati con popolazioni superiori a un miliardo e operatori finanziari, compresi fondi sovrani, che anche singolarmente dispongono di potere finanziario pari o superiore a quello di uno Stato di media dimensione.
Cosa si può fare allora?
Le difficoltà che ho appena esposto sono superabili solo mettendo in comune la sovranità monetaria. Il che comporta una messa in comune anche di una quota della sovranità politica. Un risultato che, a un livello corrispondente a quello del mercato comune, appare prematuro. Il Federalismo politico, propugnato da Altiero Spinelli, in cui favore si erano in precedenza già espressi Luigi Einaudi e Don Sturzo, per decenni è rimasto un tabù. Un obiettivo tuttora utopistico se si pensa a tutti i 27 Stati che compongono l’Unione. Che diventa verosimile se si ha riguardo agli Stati euro-mediterranei, con una popolazione aggregabile intorno ai 200 milioni di abitanti. Similarità di condizioni, lunghi tratti di storia secolare vissuti in comune, preminenze politiche e culturali riconoscibili potrebbero agevolare la soluzione.
Si tratta quindi di creare una nuova unione monetaria?
Un gruppo di Stati, membri dell’Unione, uscendo dall’euro, potrebbe dar vita a una nuova moneta sorretta da un potere politico comune esteso all’intera area economica e monetaria dei paesi partecipanti. In tal caso all’attuale moneta comune, soggetta alla disciplina euro, e alle monete nazionali degli Stati con deroga, si affiancherebbe una seconda moneta comune, gestita da un potere politico, come accade per la generalità delle monete del mondo. L’esempio dei primi sarebbe probabilmente seguito da tutti gli altri.
Tutto questo non le sembra utopistico?
Utopia? Si dovrebbe parlare piuttosto di realismo. I Paesi euro si trovano di fronte a scelte ineludibili. Bisogna mettere fine a questo periodo di soluzioni contrarie ai Trattati, non condivise, spesso improvvisate. Le serie statistiche dimostrano impietosamente quanti e di quale portata ne siano stati gli effetti pregiudizievoli. Se non si provvede con urgenza, vi è pericolo che si registrino fenomeni di implosione per parte dell’area euro e persino per l’euro nella sua totalità. L’Europa va ripensata. Perché attendere? Perché non precorrere gli eventi? La crescita dell’euro e la messa in comune da parte di un primo nucleo di Stati dell’Unione della loro sovranità monetaria e di quella politica connessa, schiuderebbe la strada a successive aggregazioni.
Ma la cessione di sovranità nazionale in Europa sembra impossibile. Inoltre, ci sono paesi che si mostrano contrari all’idea di unirsi con altri che sono indebitati, perché temono di dover “pagare il conto” per tutti. Questa nuova Europa che ha in mente può nascere davvero?
La creazione di una Federazione non è socializzazione dei debiti. È dare origine a un’entità nuova che, operando a livello superiore, consente di conseguire obiettivi che a livello inferiore non potrebbero essere raggiunti. Passando dalla Confederazione alla Federazione, le colonie americane, divenute indipendenti, e alcune molto indebitate, crearono uno Stato, gli Usa, che in un secolo divenne la maggiore potenza economica del mondo. Le potenzialità di un’entità politica unitaria, grazie all’ampiezza e alla ricchezza del mercato europeo, sono enormi. L’Europa è il maggiore importatore dagli Usa. È il più importante importatore e insieme esportatore da e verso la Cina. Dall’Europa dipendono gli equilibri mondiali. La Cina ha sopravanzato in taluni secoli l’Europa. Ma non ha trasmesso ad altri le sue acquisizioni. L’Europa è l’unico continente la cui evoluzione culturale, rinnovandosi, trasformandosi e arricchendosi senza interruzione, sia stata trasmessa a tutti gli altri continenti.
(Lorenzo Torrisi)
(2 – fine)