Nel lessico perbenista, puritano e vagamente ipocrita dei nostri nonni, il “mal francese” era una malattia venerea che, prima della scoperta della penicillina, indeboliva il corpo e la mente; nel più noto dramma di Ibsen, Spettri, portava a cecità e follia. Di “mal francese” si parla poco in Francia, dove la stampa su carta è attagliata da una gravi crisi (solo a Le Figaro 90 giornalisti perderanno il posto nei prossimi dodici mesi) e attende provvidenze da Pantalone, mentre le televisioni sono sempre state governative (quale che fosse l’inquilino dell’Eliseo e la maggioranza all’Assemblea nazionale). In questi giorni di fine d’anno, però, il “mal francese” è uno dei temi centrali di dibattito in Germania e alla Commissione europea. E nel mai sopito ricordo della Guerra dei 100 anni, The Economist ha dedicato al tema un supplemento speciale.



Andiamo con ordine: la perdita di competitività del sistema economico francese è stata preconizzata dal “Rapport Beffa”, dal nome dell’industriale Jean Louis Beffa, che per conto dell’allora Presidente della Repubblica Jacques Chirac, aveva tracciato, nel 2005, un esame impietoso della diminuzione progressiva del manifatturiero del Paese e lanciato una proposta dirompente: rinunciare a puntare su “campioni nazionali” e cercare di costruire, con i partner dell’Unione europea, “campioni europei” in grado di fare fronte al nuovo contesto internazionale.



Il “Rapport Beffa” suscitò, allora, un animato dibattito, anche in Italia, ma venne presto dimenticato a ragione dei moti nelle banlieues, della campagna presidenziale che portò Nicolas Sarkozy all’Eliseo e della crisi finanziaria scoppiata (Oltralpe) nell’estate 2007. Un nuovo documento, “Il Rapport Gallois” – altro noto industriale ora a riposo – è giunto sul tavolo di François Hollande, che lo ha commissionato lo scorso ottobre: anche in quanto dal 2005 è stata somministrata unicamente aspirina, il documento afferma che la Francia avrà difficoltà a far fronte alla competizione mondiale (e forse pure a restare leader nell’eurozona) se non mette in atto una “terapia shock”: liberalizzazione del mercato del lavoro, riassetto della previdenza e della sanità, sgravi tributari ai settori produttivi, abbandono dei veri o presunti “campioni nazionali” in favore di “campioni europei” e via discorrendo.



Il rapporto sarebbe dovuto restare “segretato”, ma anche all’Eliseo ci sono “spie”. Ne sono uscite alcune parti, scatenando furore. Hollande ha allora proposto un “patto per la competitività” sotto l’egida del Consiglio economico e sociale (il Cnel francese). Il ministro dell’Economia e delle Finanze, Pierre Moscovici, ha aggiunto che «un patto è sempre meglio di uno shock». Tuttavia, non tanto i sindacati quanto l’iper-conservatore settore agricolo francese (ampiamente sussidiato dai contribuenti europei) e parte del “patronat” (gli industriali) non vogliono sentire parlare né di “shock”, né di “patto” e invitano Gallois a godersi pensione e nipoti, diffidando i media di occuparsi troppo del documento.

Il quadro, non certo roseo, tracciato da Gallois è sostanzialmente condiviso dagli economisti del Cesifo di Monaco: i principali indicatori (Pil, occupazione, export) suggeriscono che la Francia sta entrando in un rallentamento e in una recessione strutturale (non congiunturale) di cui l’opinione pubblica (che accusa ancora la “bolla immobiliare” americana di cinque anni fa) non vuole rendersi conto. Lars P. Feld, professore all’Università di Friburgo e consigliere del Cancelliere, ci dice: «Se la Francia non riesce a gestire il pericolo di una perdita progressiva di competitività, minaccia di diventare “il grande ammalato d’Europa”, un “ammalato” più pericoloso dell’Italia (per la tenuta dell’euro, ndr) a ragione e delle proprie dimensioni e del proprio ruolo nella creazione dell’unione monetaria».

In altri termini, se il “mal francese” non viene curato rapidamente ed efficacemente , l’area dell’euro è a serio rischio. Al Fondo monetario internazionale (il cui Managing Director è francese) si sottolinea che la sfera del settore pubblico (56% del Pil) deve fare rapidamente marcia indietro, aggiungendo che i paesi nordici (Danimarca, Finlandia) che hanno un intervento dello Stato (e degli enti locali) così pervasivo hanno popolazioni e demografia ben diverse da quelle della Francia, un’industria altamente tecnologica e un comparto agricolo ormai marginale e tenuto in piedi principalmente per fini ambientali.

Interessante la diagnosi di Pascal Lamy, da sempre iscritto al Partito socialista e ora Direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio: «In Francia, pochi capiscono il funzionamento del mercato e che “competitività” non è una parolaccia; ancora di meno sono quelli che credono che la creazione di valore è la funzione primaria di un’azienda». In effetti, sposato da 45 anni con una francese proveniente da una Provincia (la Borgogna) benestante grazie alla politica agricola comune europea, non posso che condividere le affermazioni di Lamy.

In Francia l’intervento pubblico è pervasivo sin dai tempi di Colbert, ministro delle Finanze di Luigi XIV. Non è “impiccione” e “pasticcione” – come in un libro del lontano 1976 Giuliano Amato definì quello italiano -, ma nella sua razionalità ed efficacia può fare più danni all’economia di quello nostrano: “impicci” e “pasticci” lasciano spazi che la ben addestrata tecnocrazia francese non permette. È arduo pensare in Francia a privatizzazioni e liberalizzazioni, magari “impiccione” e “pasticcione” come quelle effettuate in Italia nell’ultimo quarto di secolo. Al contrario, mentre il “Rapporto Gallois” veniva filtrato alla stampa, una delle maggiori banche veniva nazionalizzata e si minacciava l’intervento pubblico in un’industria siderurgica ormai appartenente all’archeologia del settore.

L’Italia non deve rallegrarsi del “mal francese”. Se con l’aggravarsi della situazione i Francia si smotta l’eurozona, noi siamo tra le vittime designate.