Ora che Mario Monti ha dettato la sua agenda urbi et orbi e attende che i sudditi sgomitino per adottarla come programma di governo per compiacere l’Europa e non far volare alle stelle lo spread, i giochi appaiono più chiari. Come al solito, il leit motiv della campagna elettorale sarà l’attacco concentrico contro Silvio Berlusconi, le cui parole poco diplomatiche nei confronti del ruolo egemone della Germania stanno già facendo la gioia dei sepolcri imbiancati di turno.
Peccato che, al netto dell’intento elettoralistico, gli indignati speciali della stampa nostrana paghino come sempre pegno al loro provincialismo a orologeria: quando i giornali stranieri attaccano il Cav. vengono citati come fossero la Bibbia, quando dicono altro vengono semplicemente ignorati. E lo stesso vale per le politiche dei governi esteri. Ai valenti fustigatori dei costumi di Arcore, infatti, è sfuggita l’intervista rilasciata domenica alla Frankfurter Allgemeine Sonntagzeitung dal ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, il quale ha invitato in maniera molto decisa Londra a evitare di indire un referendum sulla permanenza nell’Ue, poiché questo creerebbe “incertezza”. Insomma, continua la politica tedesca di ingerenza negli affari di Stati esteri, una brutta abitudine che temo non terminerà molto in fretta, anche perché gli scricchiolii che arrivano da Londra sono sempre più sinistri.
Nel silenzio generale, infatti, l’Ukip – il partito dichiaratamente anti-europeo e pro-uscita dall’Unione – ha ottenuto risultati storici in alcune elezioni suppletive tenutesi alla fine di novembre, arrivando secondo a Rotherham e Middlesborough, superando il partito Conservatore con un netto 20% dei consensi. Un segnale chiaro, visto che l’emorragia di voti verso l’anti-europeismo più spinto non è giunta solo dalle file di elettori Tories – i quali a Rotherham hanno spedito il partito addirittura al quinto posto, superato anche dai neofascisti del Bnp – ma anche Liberaldemocratici, delusi dalla linea politica del governo di coalizione giallo-blu.
David Cameron ha capito chiaramente il messaggio e la sua intransigenza sul Budget dell’Unione è stata una prima reazione a questa scoppola, tanto da spingere Schauble ad auspicare «più coinvolgimento britannico in Europa e non meno, visto che noi vogliamo tenere la Gran Bretagna nell’Unione e non spingerla fuori». E ancora: «I nostri amici britannici non sono pericolosi, ma un referendum creerebbe incertezza. Inoltre, ogni tentativo di intimidire la Germania con minacce non sarà tollerato». Chiaro riferimento, quest’ultimo, alle parole pronunciate la scorsa settimana da David Cameron, il quale pur definendosi contrario a una mossa simile, definiva «immaginabile» una secessione britannica dall’Ue e alla proposta del deputato David Davis di indire un referendum a inizio 2014 per chiedere il ritorno di sovranità a Londra per una serie di poteri ora in mano a Bruxelles.
Insomma, diciamo che Berlusconi è decisamente in buona compagnia nel denunciare l’atteggiamento intrusivo ed egemone di Berlino. Scommetto che di queste cose sulla stampa italiana non avete letto una riga. In compenso sarete stati bombardati, come me, da servizi omnicomprensivi sulla conferenza stampa di fine legislatura di Mario Monti, il quale però ha parlato a lungo dei suoi virtuosismi sullo spread, ma si è ben guardato dal dire che, lo scorso luglio, nonostante il suo governo taumaturgico, il differenziale tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi è schizzato di nuovo a quota 534, esattamente come in quel novembre 2011 che portò al golpe tecnico, pur avendo incassato l’enorme beneficio dello scudo della Bce e delle due aste Ltro da 1 triliardo di euro per comprare debito sovrano attraverso le banche dell’eurozona.
D’altronde, lo stesso Financial Times, citato a ogni piè sospinto quando attacca Berlusconi, ha scritto che il governo Monti è stato, ed è tutt’ora, come dentro una bolla finanziaria. Insomma, ancora oggi tutto è sospeso, perché alle banche conviene incassare le cedole sui titoli, invece che prestare denaro alle imprese. Ma quando usciranno i dati del primo trimestre 2013 diranno che l’economia italiana non può più pagare le cedole e svanirà l’effetto bolla. E allora in troppi, di colpo, si affolleranno verso l’uscita. Il rischio è questo cari lettori, l’esplosione incontrollata e incontrollabile della bolla sovrana, una sell-off che ci farà molto male.
E sapete perché questa ipotesi rischia di diventare letale, portandoci sul crinale di dover chiedere aiuti all’Ue o a ristrutturare il nostro debito? Semplice, basta guardare la capitalizzazione di Borsa delle banche italiane, la quale nel 2007 era a quota a 261 miliardi e ora, dopo una doppia bufera finanziaria, è crollata a 64 miliardi. Avete letto bene, cinque anni di crisi hanno bruciato quasi 200 miliardi a Piazza Affari. E a far venire ancora di più i brividi è il fatto che di quei 64 miliardi, la gran parte è rappresentata da due soli istituti, Unicredit con 20,1 miliardi e IntesaSanPaolo con 19,9 miliardi, i quali da soli coprono due terzi dell’intero settore creditizio sui listini azionari. A dire chiaro e tondo che il sistema bancario italiano è a forte rischio di attacco da parte di competitor europei è stata proprio l’Abi nel suo periodico European Banking Report, una sorta di museo degli orrori bancari capace di stupire con numeri del genere: insieme, Mediobanca (3,8 miliardi), Mediolanum (2,6 miliardi), Ubibanca (2,5 miliardi), Mps (2,4 miliardi) e Banco Popolare (2 miliardi) non arrivano a 15 miliardi.
In alcuni casi lo zoccolo duro dell’azionariato, ovviamente, sarebbe in grado di far fronte ad attacchi, ma le preoccupazioni non mancano, legate soprattutto agli aspetti regolatori circa le differenze, in Europa, fra i sistemi di misurazione della qualità del credito, visto che le norme italiane sarebbero troppo rigide e imporrebbero alle nostre banche requisiti patrimoniali più severi, col risultato di lasciare meno spazio di manovra sui prestiti da erogare a famiglie e imprese, al netto dell’imperativo categorico del duo Draghi-Monti di usare i soldi della Bce per comprare debito e far abbassare artificialmente lo spread. Tanto più che oggi, aumenti di capitale e rafforzamenti patrimoniali non sarebbero semplicemente possibili per gli istituti italiani, al netto anche del disastroso aumento posto in essere da Unicredit lo scorso inverno e di fatto vanificato dal mercato nell’arco di pochi giorni.
Insomma, mantenere il nostro debito sulla graticola per anni – non mesi – è servito a fiaccare le principali banche italiane, bersagliate dai mercati perché percepite come insicure, al netto delle loro detenzioni di debito sovrano del Tesoro. Patetico, visto che prendendo i numeri chiari e tondi, le scarne cifre, le banche francesi avrebbero dovute essere semplicemente distrutte dagli investitori, stante le loro detenzioni monstre di titoli del Belpaese. Non è stato così, invece, perché negli anni che hanno portato al disastro attuale, Nicolas Sarkozy scodinzolava a ogni ordine della Merkel, garantendosi così un trattamento privilegiato per le sue banche travestite da hedge fund sottocapitalizzato. Noi, invece, siamo stati cucinati a fuoco lento, una strategia precisa di indebolimento del sistema Paese, culminata con il commissariamento tecnico che ha portato i fondamentali dell’economia a livelli da Paese sub-sahariano. Ora siamo pronti alla svendita, un nuovo 1992-93 pare alle porte.
Attenti a come votate i prossimi 24 e 25 febbraio, potremmo essere chiamati a decidere non chi ci governerà, ma se continueremo a essere un Paese sovrano oppure no.