“Al presidente Napolitano ho detto solo due parole: missione compiuta”. Con l’orgoglio di chi ha fatto i compiti a casa, Mario Monti lascia per il 2013 un’agenda, la sua agenda, ma non un partito; un’ambigua promessa di leadership futura (se verrà di nuovo chiamato); un Paese che è uscito dall’emergenza finanziaria, ma è entrato in quella occupazionale. Da dove si ricomincia, dunque, il prossimo anno?



La nostra sfera di cristallo mette a fuoco, innanzitutto, due parole: “cambiamento ed Europa”. Nella conferenza stampa di fine anno e fine mandato (almeno per ora) Monti ha lasciato queste linee guida al successore (o forse a se stesso se potrà guidare un governo politico, magari di grande coalizione, ma alle sue condizioni). Che cosa vuol dire?



Cambiamento significa crescita, spostando l’asse della politica economica e avviando un cammino di riforme coraggiose. Su questo l’agenda pubblicata online resta vaga, ancora impostata sulla politica dell’offerta: liberalizzazione, scioglimento dei troppi vincoli, flessibilità a cominciare dal mercato del lavoro. Tutto ciò avrà effetto nel medio periodo. E nel breve? L’agenda esclude un sostegno della domanda, non solo perché non ci sono le risorse, ma perché non fa parte del bagaglio montiano. Certo, c’è l’allentamento della morsa fiscale, a cominciare dal lavoro; ma non rappresenta la leva per la ripresa, piuttosto una questione di equità e, tutto sommato, una concessione alla Confindustria, ai sindacati, al Pd.



Il capitolo Europa viene declinato kennedianamente (cosa gli italiani chiedono all’Europa e cosa la Ue chiede agli italiani), però manca un aspetto chiave. Al di là di futuristici richiami federali, il nodo da sciogliere l’anno prossimo si chiama politica economica tedesca. In concreto, vuol dire convincere la Germania ad assumersi le responsabilità che il suo ruolo di gigante politico le impone affinché non resti ancora un nano politico (una contraddizione che diventa sempre più pericolosa).

Monti ha sostenuto di essere stato l’unico a distinguersi da Angela Merkel nei vertici di Bruxelles. Non si può non credergli. Ha parlato con voce troppo sommessa? Forse, ma il punto è che nemmeno lui è riuscito a coagulare i paesi mediterranei. L’asse latino è un’illusione (come lo fu un secolo fa la breve e sfortunata unione monetaria): Francia, Italia, Spagna e Portogallo non si fidano l’una dell’altra e tendono sempre a farsi le scarpe. I paesi nordici che pure sono stati nemici, sono più bravi nel difendere gli interessi comuni. L’asimmetria europea sta anche in queste componenti storico-culturali, non solo nei parametri economici.

Bisogna dunque sperare che a settembre vincano i socialdemocratici a Berlino? E che ascoltino i consigli di Hollande o di un Bersani a palazzo Chigi? Forse la Germania sarà governata di nuovo da una grande coalizione, ma non cambierà linea se non sarà messa con le spalle al muro. L’unico a poterlo fare è Obama, quando riuscirà a venire a capo dalla confusa opposizione repubblicana. Dunque, l’Europa resta lastricata di trappole. Il che impone un governo forte, autorevole e una maggioranza ampia.

In quel governo non ci sarà “il partito della borghesia”. Avrebbe contribuito a fare chiarezza, ma non siamo il Paese di Cartesio. E la borghesia qui è debole, divisa, tutta protesa a perseguire il proprio particolare e a tradire l’interesse generale. Aggregarla attorno a un progetto politico è il sogno di un secolo. Ci provò Gino Olivetti (direttore della Confindustria di allora) appoggiato (tiepidamente) da Giovanni Agnelli. Ma prevalse la vecchia politica e pavimentò la strada per la marcia su Roma. Torna nel secondo dopoguerra con Ugo La Malfa. Monti s’è fatto tentare, ma è prevalso in lui lo scetticismo di chi conosce la storia e il capitalismo italiano. I borghesi si muoveranno in ordine sparso, un po’ qui un po’ là in formazioni politiche interclassiste.

Chi sarà l’arbitro degli equilibri politici? Difficile che il 25 febbraio emerga dalle urne una vittoria tanto netta da garantire la governabilità, il cambiamento, le riforme. Come nel gioco dell’oca siamo tornati alla casella di partenza: Pd contro Pdl, Bersani e Berlusconi più i sette nani, qualcuno più grande, stagionato e saggio, qualcuno molto meno, ma tutti piccoli: Sel, Udc, Beppe Grillo, i magistrati, la Lega, Italia futura, la destra di Storace. I due maggiori partiti da soli non ce la faranno, quindi la legislatura nasce già claudicante.

La pausa sui mercati offre un’occasione d’oro, però adesso abbiamo davanti a noi 4-5 mesi vuoti di scelte significative. Le elezioni ci vogliono, sia chiaro. Ma fuori d’Italia pochi sono disposti ad aspettare. I commenti sui media che muovono i mercati (Financial TimesWall Street Journal,Bloomberg) parlano chiaro. Oggi nessuno specula contro l’euro, né contro il debito sovrano dell’Italia. Tutti hanno paura che Mario Draghi faccia seguire alle minacce gli atti e imbracci davvero il bazooka (l’acquisto incondizionato dei titoli pubblici, sia pur sotto condizione). Ma quanto potrà durare la sola “moral suasion”? Perché i fondamentali italiani e spagnoli non sono affatto a posto. La recessione è più pesante del previsto e spinge in alto automaticamente il debito pubblico.

Il nuovo governo, allora, dovrà chiedere aiuto alla Bce? Secondo alcuni, era meglio farlo prima, sarebbe stato un buon lascito dei tecnici ai successori. Monti ha giocato la carta dell’orgoglio: ce la facciamo da soli. E lo stesso ha detto Mariano Rajoy. Entrambi, due uomini prudenti e spesso amletici, hanno fatto appello al sentimento non alla ragione. Invece, è sempre meglio anticipare gli eventi e mettersi al sicuro. Le scelte più rilevanti vanno compiute subito. Meglio non ripetere gli errori commessi da Berlusconi nel 2001 con le tasse, da Prodi nel 2006 con il tesoretto della crescita, da Berlusconi ancora nel 2008 con il rigore. Cavare il dente e ripartire. Lo farà Bersani? No. E Berlusconi? Nemmeno. L’Italia sarà trascinata da una nuova tempesta, più o meno perfetta? Allora saranno davvero guai.

E guai seri si annunciano non solo sulle pianure d’Europa, ma sulla via di Damasco. Barack Obama ha appena scelto come segretario di Stato John Kerry, che nell’ultimo anno è stato il suo emissario speciale per la crisi siriana. Kerry prima aveva tentato di mediare con Assad, per paura che si creasse una situazione libica (cioè ingovernabile e foriera di instabilità). Poi ha virato decisamente verso il cambiamento di regime. A questo punto, dopo che la confusa, contraddittoria (e potenzialmente pericolosa) opposizione siriana (a egemonia islamista, ostile ai cristiani) è stata riconosciuta come “legittima” rappresentante del popolo, non resta che trarne le conseguenze. Kerry non ha una dottrina di politica estera diversa da Hillary Clinton, il soft power rimane il punto di riferimento teorico, però questa volta l’accento si sposta sul power. Che cosa farà il governo in carica dato che l’Italia ha il comando della missione Onu e impiega 1.100 uomini in Libano, vero ventre molle dell’intera area?

Nella sfera di cristallo scende una nebbia fitta. L’agenda Monti parla di un ritrovato rapporto con gli Stati Uniti, di presenza sulla scena mediorientale, ma sembrano capitoletti dettati dalla Farnesina. Quanto all’agenda Bersani, è ancora più generica, anche se orientata secondo i canoni della tradizione di sinistra (filopalestinese, genericamente pacifista, ma attenta a non esagerare con le critiche agli Usa, siamo pur sempre una portaerei della Nato in mezzo al Mediterraneo).

La campagna elettorale non farà chiarezza. Si vede da come è cominciata con scambi di accuse e improperi su quel che è stato (o non è stato) fatto, non su quel che si farà. Ancora una volta l’Italia sceglierà trascinata dalla costrizione degli eventi e dalle correnti della storia. E poi tutti si lamenteranno di aver perduto una sovranità che raramente hanno davvero cercato.

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