A ciascuno il suo fiscal cliff: Barack Obama, con una mossa teatrale, torna d’urgenza dalle vacanze per cercare un accordo in extremis; il premier francese, Jean Marc Ayrault, definisce “patetico” l’espatrio di Gerard Depardieu, esule in quel di Nechin, Belgio, per sfuggire al salasso fiscale; Silvio Berlusconi affida alla rabbia dei contribuenti la speranza per risalire la china in vista del voto del 24 febbraio. Sono solo esempi di un malessere generale che attraversa tutto il mondo che, fino a pochi anni fa, avremmo definito ricco.



Negli Stati Uniti, complice una norma curiosa che impone all’esecutivo di non superare, salvo accordi con il Congresso, un tetto predefinito di spesa (poco più che una formalità nell’era Bush, una potente arma di ricatto nei confronti di Obama), il conflitto assume il carattere di un duello che ricorda le dinamiche del western classico. Il Presidente, fresco di rielezione, vuole ribadire il principio di più tasse per i ricchi, ovvero per chi guadagna almeno 250mila dollari l’anno. E solo dopo questa novità, destinata a sancire in maniera definitiva la sua vittoria sulle lobbies, accetterà di rivedere i costi della riforma sanitaria. Altrimenti, la sua disponibilità sarà considerata debolezza, un peccato originale in grado di azzoppare la sua leadership.



Sul fronte opposto, la rigidità repubblicana è, per paradosso, figlia della sconfitta elettorale. Sono in molti, nel partito di Mitt Romney, a invocare una politica più elastica, adatta a riconquistare il consenso dei ceti medi impoveriti, ma nel breve termine vale la preoccupazione opposta: molti repubblicani temono di essere travolti, nei loro collegi, dall’ondata di destra del tea party. Nessuno, almeno all’apparenza, intende cedere.

Anche se, sostengono i maligni, l’intesa di massima sulle cifre (risparmi attorno i 400 miliardi annui per dieci anni, in parte compensate da maggiori entrate) è stata raggiunta da tempo. Ma una partita così importante richiede la giusta drammatizzazione teatrale, compreso l’accordo fuori tempo massimo. È quel che sospetta Wall Street, meno nervosa di quel che dovrebbe. Ma il duello, al di là delle soluzioni che prima o poi verranno trovate, è destinato a riproporsi nel tempo. La questione fiscale, infatti, rappresenta la vera linea di confine che separa i movimenti politici dell’Occidente: da una parte la “destra”, che chiede meno tasse e meno spese, dall’altra la sinistra che invoca più sacrifici per i ricchi in nome della difesa delle conquiste dello Stato sociale.



Categorie difficili da applicare in un Paese come l’Italia ove, tentati dalle soluzioni più populiste, destra e sinistra spesso esondano in campo altrui. Ma la sostanza resta la stessa: l’Occidente, ovunque oppresso dal debito (vuoi del sistema pubblico, vuoi di imprese o famiglie), cerca di far fronte all’emergenza con il ricorso alle ricette ritenute meno invasive e dolorose per il proprio elettorato. Una preoccupazione legittima, per carità, ma che rischia di non cogliere la complessità del quadro che abbiamo di fronte.

Inutile farsi illusioni: l’Occidente, come ci spiega Niall Ferguson in “Occidente”, un’opera di un paio di anni fa ma appena tradotta in italiano, fronteggia da tempo pressioni strutturali destinate ad accentuarsi nei prossimi anni. L’invecchiamento dell’Occidente, in particolare, ha appena cominciato a farsi sentire. Nella seconda metà del decennio l’onda grigia dei figli del Baby Boom del dopoguerra diventerà ancora più potente e premerà su tutti i sistemi previdenziali e sanitari più di oggi. Il risultato? I conti pubblici resteranno sotto controllo solo con una sgradevole miscela di tagli allo stato sociale, pressione fiscale in costante aumento e monetizzazione del debito a perdita d’occhio.

Questo cocktail è destinato ad accompagnarci per molti anni. Nessuno possiede bacchetta magiche per evitare questa stretta. Certo, l’azione delle banche centrali contribuirà a render meno amara (o meglio, meno evidente) la malattia. Sia la Fed che la Bce, infatti, hanno ormai adottato la formula della “fiscal repression”: ci aspettano anni di tassi nominali bassi, inferiori all’inflazione (che prima o poi ripartirà) e alla crescita del Pil, quando si tornerà a crescere. In questo modo gli Stati indebitati potranno spalmare parte del loro debito sulle spalle dei risparmiatori e/o degli iscritti ai fondi pensione senza che le “vittime” se ne rendano conto.

I tassi d’interesse verranno così mantenuti rigorosamente sotto l’inflazione. Le banche centrali continueranno ad accumulare titoli pubblici. Per qualche tempo manterranno la finzione che questi acquisti siano temporanei. Ma questa terapia non basterà, ripetono in coro Ben Bernanke e Mario Draghi, se la politica non si assumerà le proprie responsabilità. In assenza di un’inversione di rotta, in Europa il debito pubblico continuerà a crescere. Scenderà però il costo degli interessi, perché la Bce interverrà ogni volta che sarà necessario. Come è già avvenuto in Giappone e in America, i compratori di titoli di stato si troveranno in mano la carta di un emittente sempre più indebitato che paga un interesse sempre più piccolo. L’economia europea a un certo punto si stabilizzerà, ma la disoccupazione e le sofferenze bancarie, due indicatori ritardati di ciclo, continueranno a crescere.

È questo lo scenario, non consolante, che ci attende per i prossimi anni, dominati dalla questione fiscale che pure è più un effetto che la causa dei nostri guai, destinati a durare tanto più a lungo quanto meno ci occuperemo della strategia che occorre per uscire, ahimè non subito, dalla depressione attuale. Una politica di crescita vera richiede crescita demografica investimenti nell’educazione e nella formazione, un forte impegno nell’economia dell’ambiente. Ovvero un investimento nel futuro difficile in un Paese che continua a guardare solo al proprio passato che non tornerà.