Superate le primarie, Pier Luigi Bersani ha la strada spianata e, se le cose non cambiano, si presenta in campagna elettorale come potenziale vincitore. Già tutti in Italia, e ancor più all’estero, si chiedono che governo farà, con chi e quale programma. Un po’ leggendo nella sfera di cristallo, un po’ conoscendo il personaggio, spostiamoci in avanti nel tempo, alla primavera prossima.
Il Pd ha vinto le elezioni politiche sfiorando il 30 per cento dei voti, a conferma di una tendenza ormai consolidata da mesi. Con il Sel e gli altri di sinistra, nonostante il premio di maggioranza, non riesce a controllare le due camere e si materializza lo spettro del 2006, cioè del secondo gabinetto Prodi, breve e pasticciato. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano affida a Bersani l’arduo incarico con una raccomandazione quasi paterna: “Formare un governo che governi”.
Ciò vuol dire aprire al centro, al frastagliato universo composto dal partito di Pier Ferdinando Casini, la Lista per Monti, i pochi deputati di Fermare il Declino. Mentre a destra c’è la Lega che ha confermato il proprio zoccolo duro, la formazione post-berlusconiana erede del Pdl e, fuori a tumultuare, il Movimento Cinque Stelle il quale, pur in pieno sboom, ha preso il 10 per cento dei voti.
Un governo che governi, si fa presto a dirlo, ma come metterlo insieme? C’è sempre Mario Monti in lista d’attesa, però è un second best. Bersani ha vinto e ha promesso ai suoi elettori che andrà a palazzo Chigi. Intanto, i mercati hanno ripreso a farsi sentire. C’è stata una nuova fiammata dello spread all’inizio della campagna elettorale, quando alle piazze in tumulto Nichi Vendola narrava la storia del ricco tosato per chiudere l’altro spread, quello della diseguaglianza. E Bersani a Porta a Porta spiegava che sì, una patrimoniale ci vuole, lo diceva persino Luigi Einaudi padre di tutti i veri liberali. Adesso, di fronte a un risultato elettorale tutt’altro che chiaro, chi muove la moneta bollente torna a dubitare dell’Italia e il prezzo della sfiducia si vede nel rendimento dei titoli pubblici.
Uomo accorto e navigato, Bersani, appena uscito dal Quirinale, fa cancellare ogni appuntamento e vola in gran segreto a Francoforte per un incontro con Mario Draghi. Tra lo stupore di chi non vuol capire e il dispetto di chi pensava che fosse finita l’epoca delle lettere d’intenti o diktat tecnocratici, che dir si voglia. Bersani, che non sta lì a pettinar le bambole, per usare una delle sue battute, è cresciuto alla scuola del Partito comunista, ed è passato attraverso un ventennio in cui la sinistra ha governato e sgovernato, quindi sa bene come stanno le cose. Massimo D’Alema, d’altra parte, gli ha ricordato che Bill Clinton come prima cosa appena eletto andò a trovare Alan Greenspan, capo della Federal Reserve che era un repubblicano di origine controllata.
Draghi, pur in piena autonomia e con il rispetto assoluto della volontà popolare (non sia mai!), tira fuori dalla tasca (non porta mai cartelle, borse, dossier o quant’altro) un foglietto in inglese con l’intestazione della Banca centrale europea e mostra a Bersani prima la data, 5 agosto 2011, poi le firme: Jean-Claude Trichet presidente della Bce e Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia. Comincia così: “Caro primo ministro”, è rivolta a Silvio Berlusconi, però resta valida più che mai quale agenda per il prossimo governo.
“Ma come – si stupisce Bersani – con tutto quello che abbiamo dovuto ingoiare durante un anno e mezzo di Monti? Io credo che bisogna cambiare fase, passare dall’austerità allo sviluppo”. Draghi sorride: “Certo, l’ha scritto Eugenio Scalfari sulla Repubblica dopo una delle nostre chiacchierate la mattina a villa Borghese. Ma ha dimenticato di ricordare che le condizioni per lo sviluppo non ci sono ancora”.
Un sudore freddo imperla l’ampia fronte del presidente incaricato. Quale amara medicina dovrà ancora propinare agli italiani? Draghi insiste sui tagli alla spesa per creare spazi alla riduzione fiscale. È questo che Monti ha mancato di realizzare. Forse non aveva il tempo per operazioni di più lungo periodo, forse ha incontrato troppi ostacoli, forse non era convinto fino in fondo neanche lui, ma tant’è. In questo quadro anche la patrimoniale può diventare accettabile: una misura redistributiva e non punitiva, è anch’essa nello spirito dei tempi, in America, in Francia, in Germania persino. Solo dentro un cammino chiaro e ben individuato di riduzione della pressione fiscale complessiva, una limitata imposta sulle grandi fortune non crea allarme e non rischia di far uscire i capitali. L’altra condizione è che il pareggio del bilancio venga realizzato nel 2013 “principalmente attraverso i tagli alla spesa”, ripete Draghi leggendo la frase scritta sulla lettera.
“Tagli, ancora tagli, avrò contro tutto il mio popolo, i sindacati, gli enti locali, gli statali”, si lamenta Bersani. Ha ragione, ma hic Rhodus hic saltus, ribatte Draghi che ha studiato dai gesuiti. E non basta. Legge ancora: “C’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva”. “E allora l’accordo sulla produttività del novembre scorso?”. “Senza Cgil si sa che non conta. Lei deve convincere Susanna Camusso”. “Io?”. “Sì, lei, che ricorda senz’altro Luciano Lama e la svolta dell’Eur nel 1978”. Che drago, l’impronta della Compagnia di Gesù non va mai via, pensa Bersani. “E poi…”. “No, adesso basta…”. “Legga qui: Dovrebbe essere adottata un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione della disoccupazione e un insieme di politiche attive del mercato del lavoro…”. “E allora cosa ha fatto la Elsina Fornero?”, si spazientisce Bersani. “Ha aperto la strada, ma mi risulta che quasi nulla è stato davvero realizzato”.
Il presidente incaricato è con le spalle al muro. “Caro Draghi, lei non mi può chiedere di fare un governo più a destra di quello di Monti”. Super Mario non si scompone e allarga le labbra nel suo sorriso da gatto del Cheshire: “Io sono pronto a intervenire senza limiti per sostenere l’euro se l’Italia sarà attaccata e per sostenere l’Italia se seguirà il sentiero prescritto dalla lettera dell’agosto 2011. È la mia ferma convinzione e in ogni caso non ho altro modo di convincere il consiglio della Bce, per non parlare della Bundesbank. Quanto alla sinistra, caro Bersani, lei si è presentato come socialdemocratico, io le propongo le stesse riforme realizzate da Gerhard Schroeder che è tedesco, è stato Cancelliere di un governo di centrosinistra, rosso-verde lo si chiamava, e capo del Spd, ovvero la madre di tutta la socialdemocrazia europea, fin dal congresso di Gotha del 1875”.
Lama, Schroeder, e poi addirittura August Bebel. Inchiodato alla croce del socialismo. Cosa rispondere? Ne sa una più del diavolo. Alla faccia del tecnico e del banchiere centrale, è lui il capo del governo nell’Eurolandia, anche se nessuno lo ha mai eletto, pensa tra sé Bersani. Pragmatico qual è, capisce che non ha scelta. Il sentiero è già tracciato, a lui guidare il carro del vincitore. A tutti coloro i quali ci saltano su per prendersi un po’ di roba, non gli resta che rispondere ricorrendo a una battuta che poi è una citazione: “Nun c’è trippa per gatti”. La fece appendere per le strade di Roma nel 1907 il sindaco Ernesto Nathan, di origine inglese, ebreo, massone, radical-socialista. Risanò le finanze pubbliche (la trippa per i gatti era una voce in bilancio, simbolo degli sprechi pubblici), governò fino al 1913, progettò il primo piano regolatore e vennero costruiti alcuni dei più bei quartieri della nuova capitale.
Bersani che pure ama la buona compagnia, non ha tempo per fermarsi a cena, riprende l’ultimo volo per Roma e detta un comunicato al suo portavoce Roberto Seghetti che lo segue come un’ombra discreta e intelligente: “Il presidente incaricato si è incontrato a Francoforte con il presidente della Bce il quale gli ha rinnovato l’auspicio che il prossimo governo prosegua sulla strada del rigore, dello sviluppo e dell’equità, garantendo un leale sostegno all’azione di risanamento dell’Italia nel rispetto dei diversi ruoli istituzionali e dell’autonomia della banca centrale”.