La notizia dell’esito positivo dell’asta francese dei titoli di Stato è arrivata nel corso del direttorio della Bce. Nonostante la retrocessione di Moody’s il Tesoro francese è riuscito a collocare i titoli a 15 anni al 2,56%, trenta punti sotto il prezzo di due mesi fa. Non meno positiva la situazione degli hellenic bond, nonostante nella notte Standard & Poor’s abbia decretato una nuova, scontata, bocciatura per Atene, scivolata da CCC a “selective default”, ormai nell’inferno dei dannati. Solo pochi mesi fa una notizia di questo genere avrebbe fatto precipitare il debito sovrano dell’eurozona a livelli di quasi default. Oggi, al contrario, lo spread ellenico resta sui livelli minimi degli ultimi 15 mesi grazie anche all’operazione di buyback in corso.



Il verdetto dei mercati, insomma, premia senza riserve il tocco magico di Mario Draghi: nel giro di pochi mesi, rischiando in prima persona (ormai è storico il richiamo del 25 luglio “faremo tutto quel che è necessario per salvare l’euro”), il banchiere è riuscito a riportare la calma nella finanza d’Europa. Una “mission impossibile” che ha della magia se si pensa che, da allora, Draghi ha speso solo promesse: né dai forzieri della Bce, né da quelli dell’Esm è uscito un solo euro.



Draghi, nonostante la rilevante opposizione della Bundesbank, insomma, è riuscito a ottenere il massimo con il minimo sforzo. Ovvero, tutto quel che poteva fare l’ha fatto. Difficile chieder di più alla banca centrale. Sì, esiste un certo, limitato margine sul fronte dei tassi. Ma lo stimolo, tutt’altro che scontato, alla ripresa di un minor costo del denaro sarebbe bilanciato dagli effetti negativi di interessi più bassi per il sistema bancario, affamato di capitali e dalla redditività calante.

Nel 2013, sia che si decida di rinviare l’appuntamento con i requisiti di capitale di Basilea 3 (come hanno fatto gli Usa), sia che si proceda a rimetter ordine nel patrimonio degli istituti di credito (assai meno solidi di quel che non appaia, causa la recessione), la Banca centrale avrà il suo bel daffare per impedire nuove brutte sorprese sistemiche. Lo “scoop” del Financial Times, che ha rivelato come nel 2009 Deutsche Bank abbia occultato la reale esposizione nei derivati, celando ai mercati una situazione potenzialmente esplosiva, conferma come il mondo sia andato vicino a una deflagrazione finanziaria ben più grave di quella scoppiata con il caso Lehman Brothers.



E Draghi, fino a un anno fa alla guida del Financial Stability Board, è ben consapevole che il rischio insito nelle “banche troppo grandi per fallire” è tutt’altro che superato. Dal mondo del credito, vuoi dagli Usa ove Citigroup annuncia il taglio di 11 mila posti di lavoro alla Svizzera (drastiche misure in vista per Ubs), arrivano notizie amare per le banche. Non è un dramma, ripeteranno in coro centinaia di milioni di lavoratori e disoccupati vittime della crisi provocata, tra le altre cause, dall’euforia e dall’avidità dei signori del credito. Ma, come nota Francisco Guerrera, analista principe di The Wall Street Journal, “la crisi delle banche è assai più grave di quella di un’altra impresa: se fallisce General Motors, ne subiranno le conseguenze i dipendenti e gli azionisti, ma qualche altro produttore ne approfitterà. Se salta una banca di media importanza, come Lehman Brothers, l’intera economia globale vacilla, causa l’intreccio che lega le fabbriche del denaro, materia prima essenziale”.

Insomma, non illudiamoci che dal cilindro di Draghi o da quello di Ben Bernanke possa uscire la formula magica per la ripresa. Le banche centrali, piaccia o non piaccia, hanno evitato il peggio. Ma per tornare a crescere ci vuole qualcos’altro. Ovvero, come continua a sostenere in ogni occasione il presidente della Bce, la palla deve per forza passare alla politica.