Ci sono indicazioni di leggero miglioramento del quadro economico in alcuni aspetti dell’Italia reale, nonostante le stime Ocse e Banca d’Italia avvertano che il punto di svolta inferiore si toccherà solamente la prossima estate. Ma il ceto politico pare non accorgersene. Sembra non avvertirlo neanche il “Governo tecnico privo di tecnicalities” (si legga l’editoriale di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi su Il Corriere della Sera del 5 dicembre) che legifera a suon di decreti-delega, i quali, però, restano imbrigliati in una fitta ragnatela di pandette e di burocrazia.



Da dove vengono questi segni di miglioramento? Si è spesso parlato del buon andamento dell’export, nonostante il tessuto produttivo dell’economia italiana fosse ammalato di “svalutazioni competitive”. Una ricerca della Banca d’Italia esamina il fenomeno dal punto di vista di quello che è il proprio mandato istituzionale, nonché il proprio stile di condurre analisi empiriche non di elaborare meramente teoremi logico-matematici. Sulla base dei dati dell’andamento di 7800 imprese nel periodo 2007-2010 (ossia dal crac di Lehman Brothers a consuntivi recenti) lo studio rileva che lo shock finanziario, e le relative restrizioni creditizie non hanno influito in misura significativa sulla capacità di esportazione delle imprese, con l’eccezione di alcune filiere di piccole e medie imprese. Non solo, ma – sempre tenendo conto delle restrizioni finanziarie – in caso di difficoltà con le banche di cui erano clienti abituali, molte imprese anche di dimensioni modeste sono riuscite a riposizionarsi presso altri istituti per il finanziamento del loro commercio con l’estero.



Un’altra sezione della ricerca esamina, sulla base di un campione di 2800 imprese nel 2008 (l’anno in cui scoppio la crisi) se la rete bancaria all’estero di supporto all’internazionalizzazione ha effetti positivi in termini di riduzione dei costi fissi, di conoscenza degli assetti istituzionali e legali dei vari paesi esteri, di aspetti culturali di dove si intende operare, di opportunità d’investimento. Ne risulta un quadro particolarmente positivo se tra banca e impresa ci sono relazioni di lunga durata, anche in madre-patria. Anche se è ingeneroso fare raffronti, la rete bancaria italiana all’estero o i corrispondenti esteri di banche italiane sembrano più efficaci della complessa struttura pubblica – un vero labirinto di norme e di istituzioni.



Circa dieci anni fa si tentò di fare un testo unico della normativa del commercio con l’estero: era quasi pronto quando, nel 2006, terminò la legislatura. Il tentativo è rimasto tale – è da augurarsi che il prossimo Governo lo rilanci – ma le imprese esportatrici si sono “arrangiate” e hanno resistito al nuovo regimi di cambi facendo leva sulle banche.

Ho ritenuto opportuno soffermarmi su questo caso non soltanto perché esaminando le singole foglie si conosce meglio l’albero, ma in quanto non è che sfiorato nel Rapporto Censis (i lavori della Banca d’Italia sono ancora in corso) ma dà concretezza a quello che è il messaggio centrale delle sue 560 pagine: nell’anno forse più nero di una recessione che minaccia di trasformarsi in depressione, pure a ragione del forte aumento della pressione tributaria e contributiva, e della conseguente riduzione della capacità delle famiglie di sostenere consumi e investimenti, gli italiani hanno mostrato un forte istinto di sopravvivenza e una notevole capacità di riposizionamento.

In termini più tecnico-economici, hanno dato prova di un’efficienza adattiva che ha consentito di superare gravi crisi in momenti anche recenti della storia nazionale, ma che pareva essersi tanto diluita da non incidere più sull’economia e sulla società. Le 560 pagine del documento (che verranno ampiamente riassunte sulla stampa d’informazione) sono in gran misura dedicata e individuare e tratteggiare proprio questo istinto di sopravvivenza e la capacità di riposizionamento. Non viene mai utilizzato il termine economico “efficienza adattativa”, quella caratteristica che, secondo il Premio Nobel Douglas C. North, è la vera leva dello sviluppo. Il concetto di base è, però, lo stesso.

Sorge, però, un dubbio. In che misura la politica – anche la politica dei “tecnici senza technicalities” – avverte queste pulsioni e le fa proprie? Vediamo a fronte di una società che pur nella crisi si aggancia al proprio istinto di sopravvivenza e si riposiziona un ceto politico che pare imbalsamato: non riesce a ridurre il numero di deputati e senatori, a dare al Paese una legge elettorale moderna e tale da far leva sul rapporto tra elettori ed eletti, mantiene il bicameralismo perfetto e forme di finanziamento pubblico uniche al mondo.

Non c’è il rischio di un progressivo scollamento tra una società che, dalla crisi, estrae istinti ed energie non per aggrapparsi alla vecchia italica “arte di arrangiarsi” ma a forme di “efficienza adattiva” e una politica che pare ingessata? Ora che la legislatura sta volgendo al termine, quanti politici si chiedono se tale scollamento non sia all’origine dei loro mali?