Dopo il no definitivo all’offerta di Sawiris, giudicata incongrua, Telecom Italia si accinge a vendere parte della rete alla Cassa depositi e prestiti. Benché l’operazione non possa dirsi già a buon punto, siamo ben oltre lo studio di fattibilità. E’ in corso una trattativa. L’azienda guidata da Franco Bernabé attribuisce alla rete 15 miliardi di euro, la Cdp non più di 11-12. Un ostacolo che un accordo può serenamente superare. Restano alcuni nodi fondamentali da sciogliere, quali le indicazioni dell’Ue e dell’Agcom. Abbiamo chiesto a Massimiliano Trovato, esperto di telecomunicazioni dell’Istituto Bruno Leoni cosa comporta l’eventuale vendita.
Perché, anzitutto, Telecom Italia vuol vendere la rete?
Telecom ha un debito imponente, di circa 30 miliardi di euro. Il piano di vendita di parte della rete, nella prospettiva di una società partecipata in misura paritaria dalla Cdp, è finalizzato prevalentemente al suo abbattimento. Telecom, inoltre, con questa manovra conta di alleggerire le pressioni dei regolatori. In particolare, spera di mettere a frutto alcune recenti prese di posizione del commissario europeo per l’agenda digitale, Neelie Kroes, che sembra veder con maggior favore una prospettiva di prezzi stabili per il rame e di minore onere regolamentare sulla fibra. I vari pezzi del puzzle si comporrebbero, da un lato, in una maggior solidità finanziaria, dall’altro in una maggior libertà d’azione sul mercato. Il tutto, senza davvero rinunciare alla rete.
In che senso?
Il nodo di contrattazione, oltre al prezzo, è quello relativo alla governance della nuova società che Telecom non ha alcuna intenzione di abbandonare. Gli uomini di Telecom, in sostanza, siederebbero anche nel Cda del nuovo soggetto societario.
In linea generale, si pongono questioni analoghe a quelle relative alle aziende che vendono e distribuiscono energia?
La situazione è astrattamente paragonabile, ma diverso è il punto di partenza. Nel caso dell’energia e del gas abbiamo ancor società pubbliche, ove qualsivoglia piccolo passo nella direzione di un minor controllo rappresenta una privatizzazione auspicabile. Nel caso di Telecom, invece, siamo di fronte a un’azienda privata in cui l’intervento della Cdp rappresenterebbe, al contrario, un arretramento verso un maggior controllo pubblico. Quindi, benché lo scorporo sia altamente auspicabile, sarebbe meglio se si trattasse di scorporo effettivo.
Chi ne beneficerà?
Probabilmente, Telecom sarà l’unica a trarre vantaggi dall’operazione. Manterrebbe il controllo dell’infrastruttura e ci guadagnerebbe economicamente.
Quali dovrebbero essere, invece, gli interessi della Cdp?
L’idea è che il suo intervento possa favorire lo sviluppo delle reti di nuova generazione attraverso una sorta di patto di non concorrenza. Acquisirebbe al prezzo di oggi una quota consistente della rete in rame nella prospettiva che, con gli investimenti futuri sulla rete in fibra, venga prima o poi disattivata. Si tratterebbe, in sostanza, di indennizzare Telecom per favorire una più agevole transizione alla fibra. In caso contrario, Telecom avrebbe tutto l’interesse a continuare a investire in rame.
Molto dipenderà della realizzazione effettiva dell’Agenda digitale.
Le vicende dell’Agenda digitale sono legate, in queste ore, a doppio filo a quelle del governo. Di sicuro, i provvedimenti dell’Agenda possono fornire un importante stimolo allo sviluppo delle nuove infrastrutture creando domanda per una maggiore ampiezza di banda. D’altro canto, pur riconoscendo la necessità di un’azione armonica su tutto lo spettro, credo che l’Agenda, laddove non fosse portata a termine, non potrà essere il paravento per buttare a mare gli investimenti sulla fibra.
(Paolo Nessi)