Se sommiamo il debito privato a quello pubblico, la posizione dell’Italia si rileva tra le più sane nel mondo industrializzato. Tra le ultime stime di questo “debito totale”, per il 2013 Invest Banca vede il Giappone al 471%, il Regno Unito al 466%, la Spagna al 366%, la Francia al 323%, l’Italia al 315%, gli Usa al 296% e la Germania al 285%. Questo dato dovrebbe rassicurare i mercati finanziari e pure le autorità europee, che per questo dovrebbero concedere all’Italia qualche “sconto” sulle richieste di austerity. In realtà, questa somma di debiti non ha senso.
Il problema dell’Italia è il debito pubblico non perché si sommi a quello privato, ma perché questo è sul mercato finanziario, in bond, e data l’incapacità dell’Italia di ripagare il debito deve essere quasi costantemente rinnovato con nuovo debito alle condizioni di volta in volta vigenti sul mercato stesso. Il mercato non vuol strozzare i propri debitori, ma nemmeno può tenersi un credito che non ripaga dei rischi. Qui sta il problema del debito pubblico: essere costantemente sotto al giudizio del mercato, che è comunque l’unico in grado di finanziarlo (le tasse sono già da molto a livelli assurdi).
Che il debito privato sia elevato o meno, non conta di per sé granché quando il problema è che il debitore Stato pare incapace di controllare la propria spesa; quel che rileva, casomai, è la ricchezza netta privata (appunto al netto dell’indebitamento privato) in quanto rappresenta un potenziale fondo che lo Stato può “depredare” con tasse e imposte per garantire la solvibilità del proprio debito. Sinceramente non trovo niente di rassicurante nel fatto che, in quanto privatamente meno indebitati, i cittadini italiani rappresentino un ottimo gregge da offrire in olocausto sull’altare del debito statale.
L’indebitamento non è una cosa naturalmente negativa. È l’essenza del capitalismo: aver la possibilità di disporre di somme che altri hanno potuto risparmiare, per poter dar corpo ai propri progetti di crescita umana o economica. Il debito (credito, per la controparte) implica uno scambio di moneta attuale contro moneta futura; sotto i dovuti incentivi (tassi di interesse, reputazione, avidità), da tale scambio risulterà maggior produzione lavoro e ricchezza futura per tutti (distribuita attraverso stipendi profitti e interessi, a seconda del ruolo ricoperto).
Tale strumento permette inoltre di aggirare il vincolo della dotazione iniziale di ricchezza: se non dispongo, per fortuna o per eredità, di una certa ricchezza, non sarò per questo condannato a una vita marginale e povera, ma potrò aspirare – indebitandomi – a costruire qualcosa per il mio futuro. Il problema essenziale in questo è che il “sistema” (società-economia) deve possedere un certo grado di fiducia, si deve sentire una certa “sicurezza” nel concedere in prestito la ricchezza. Se non c’è fiducia (nel futuro, nelle istituzioni, nella morale concreta – non solo dichiarata – della società), ci sarà minor predisposizione a prestare denaro, minor propensione a dare credito, il che significherà certo meno soggetti indebitati, ma anche maggior immobilismo sociale e minor sviluppo per tutti.
Un’economia che funziona bene non è una economia con basso debito privato; anzi, l’indebitamento dovrebbe essere “alto”, effetto di una sorta di “spersonalizzazione” della ricchezza che scorre fuori da ambiti strettamente familiari. La somma passata dal padre al figlio non risulta da nessuna parte, e non è detto che il fine sia produttivo; la stessa somma prestata a un terzo che avvia una produzione risulta in un debito, ma per la società (chi lavora a quella produzione e chi acquisterà i nuovi beni prodotti) ha un valore ben positivo.
Basta questo esempio per capire che l’interpretazione delle dimensioni del debito privato in termini di vantaggio per il Paese non è assolutamente univoca e in linea di principio è perfino controintuitiva: un sistema con scarso debito è tendenzialmente un sistema fermo. Quest’ultimo ragionamento funzionerebbe anche nel caso del debito pubblico, se a questo corrispondesse un’effettiva creazione di valore per i cittadini. A parte poche posizioni ideologiche, è piuttosto chiaro che non è comunque il caso dell’Italia: con una spesa superiore alla metà del Pil e un debito pubblico superiore di un quarto allo stesso Pil, il debito stesso non risulta sostenibile. La ricchezza creata dietro indebitamento statale non copre l’impegno debitorio – l’indebitamento pubblico è controproducente.
L’Italia non è un Paese anglosassone o continentale, dove le dinamiche della società-economia sono più spersonalizzate, meno concentrate sull’ente-famiglia (come molti “accusano” Regno Unito e Stati Uniti di essere). Un sistema famiglia-centrico è socialmente immobile (tendenzialmente la posizione nella società e il settore di attività si trasmettono per via genetica) e cresce poco (a meno che non si creda che il credito migliore – più remunerativo, meno rischioso, e in grado di mobilitare le risorse più capaci e produttive – sia necessariamente all’interno della propria famiglia). Questo tipo di Paese dovrà avere bassa crescita, “caste” di ogni tipo e un ridotto tasso di indebitamento privato. Appunto questa è l’Italia. Sarebbe preferibile un Paese con un maggior indebitamento privato – che riflette maggiori possibilità diffuse di crescita – invece che poco indebitato, ma praticamente feudale.
Per quanto detto sopra, quindi, avverto che sommare il debito pubblico – che per l’Italia ha una valenza decisamente negativa, di “peso morto”, di riflesso dell’incapacità di creare ricchezza – al debito privato – che ha una valenza anche positiva quale manifestazione di fiducia e possibilità diffuse – può essere fuorviante sia in termini di rapporto con i mercati finanziari (che si preoccupano di come possa essere solvibile un debito pubblico tanto alto) che riguardo lo sviluppo economico (che vive di denaro che “gira”).
L’intero mondo che conosciamo è passato da un periodo di “credito facile”, per cui i tassi di indebitamento si sono gonfiati ovunque a mo’ di “bolla”. In nessun Paese, pertanto, il tasso di indebitamento privato può essere considerato “sano”, dettato da una giusta fiducia nelle capacità di creazione di ricchezza; ovunque si è concesso credito anche solo perché questo “era disponibile”. Effettivamente, l’indebitamento privato rispetto al Pil in Gran Bretagna (oltre il 350%) e Spagna (oltre il 280%) possono suonare come preoccupanti, ma tra i due direi che è più preoccupante il Paese non-anglosassone.
L’Italia pare privatamente meno indebitata della Francia (ben oltre il 200%), ma stando tra il 180 e il 190% di indebitamento privato sul Pil si trova ai livelli di Germania – che solo ora mostra segni di difficoltà – e Usa – il Paese a-familiare per eccellenza. Che l’indebitamento della famiglia-centrica Italia sia al livello delle più “spersonalizzate” società-economie tedesca (che in più finora “ha corso”) e soprattutto statunitense, è indice di un maggior pericolo di “eccesso di indebitamento”.
In altre parole, l’indebitamento privato oltre che misurato va “ponderato” e la classifica secca data dalla sua semplice somma con il debito pubblico per lo più non ha senso. Capiti i segnali di una minor “salute” dell’Italia, si capisce anche la scarsa fiducia internazionale sulle prospettive questo Paese dall’apparentemente competitivo totale di debito privato e pubblico.