Ora l’Italia, più credibile sul piano del rigore, sarà valutata dai mercati per la sua capacità sia di fare crescita, sia di costruire un sistema politico ordinato che la mantenga dopo le elezioni del 2013. Una prima prova dovrà essere data nelle prossime settimane. Per la crescita serve la sostituzione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori con un meccanismo di tutela che non soffochi lo sviluppo delle imprese.



Tale misura serve immediatamente, perché potrebbe attutire la recessione in atto, forse perfino invertirla, via il suo effetto incentivo alle imprese per aumentare gli investimenti e l’occupazione. Quindi è interesse nazionale che tale riforma non solo venga fatta in fretta, ma anche che non comporti conflitti violenti. L’Italia non può permettersi, in questo delicatissimo momento di faticosa ricostruzione della sua credibilità, immagini televisive di scontri di piazza che girino nel globo.



Tecnicamente, negli indici di valutazione delle agenzie di rating pesa molto un indicatore, denominato “reform stress” (stress da riforma), che misura la difficoltà di produrre cambiamenti verso l’efficienza di un modello economico. L’Italia non può permettersi un ulteriore declassamento del suo voto di affidabilità, perché ciò aumenterebbe il costo, oltre che del rifinanziamento del debito pubblico, anche della raccolta di fondi per il sistema bancario che si trasformerebbe in peggioramento del credito, già insufficiente e costosissimo, per famiglie e imprese.

Quindi tutti noi – sulla stampa è importantissimo proporlo con determinazione per influenzare politica e sindacati – dobbiamo contribuire con le nostre opinioni a formare il consenso per una riforma efficace, rapida e senza conseguenze di conflitto eccessivo. E per riuscirci dobbiamo puntare a una riforma bilanciata che mantenga le tutele per i lavoratori e allo stesso tempo produca l’effetto crescita/efficienza.



È possibile? Lo è, applicando una teoria nota, nonché scegliendo tra prassi già applicate in altre nazioni, quindi valutabili concretamente. Semplificando, si tratta di trasferire la garanzia dal posto di lavoro, come oggi stabilito dall’articolo 18 che fissa la licenziabilità solo per giusta causa, al lavoratore come persona. Tale metodo è stato alla base di una riforma compiuta dalla sinistra tedesca (governo Schroeder) che ha dato le ali all’industria e alla produttività, nonché all’occupazione, della Germania.

Il lavoratore licenziato per motivi economici riceve uno stipendio dallo Stato, decrescente nel tempo per incentivarlo a trovare nuovo lavoro, con un fortissimo aiuto per la riqualificazione professionale, se serve, e per trovare nuove opportunità. Un lavoratore può essere licenziato più volte, ma comunque mantenere un reddito costante garantito che gli permette di programmare un mutuo per la casa, fare figli, ecc., come se avesse un’occupazione a tempo indeterminato.

Sarebbe incomprensibile, e solo ideologica, un’opposizione a una riforma di questo tipo, che il governo sta studiando, perché si tratta di un rafforzamento delle tutele e non di un loro indebolimento. Con un vantaggio. Lo Stato che deve pagare salari ai disoccupati avrà più pressione per configurare il mercato verso la crescita e quindi verso più occupazione.

Lo schema qui detto non è di destra né di sinistra, ma tiene conto di due requisiti realistici da integrare: (a) la domanda sociale di sicurezza economica; (b) la flessibilità che permette alle imprese di adattarsi alle condizioni competitive del mercato, sempre mutevoli. Si può fare benissimo, sarebbe solo irrealismo suicida il non farlo o complicarlo troppo.

 

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