L’Eurogruppo convocato (poi fatto saltare) per oggi era chiamato a dare il via libera alla concessione del nuovo pacchetto di aiuti per la Grecia, Paese che ancora una volta rischia di dichiarare bancarotta. Il Parlamento di Atene ha fatto la sua parte, approvando pesanti misure di austerità nel fine settimana, mentre si sono registrati scontri di piazza e proteste da parte della popolazione contro i sacrifici richiesti. L’Europa, però, ha fatto sapere che mancano ancora alcune formalità. Bisognerà comunque dare un segnale, anche perché ieri l’Ufficio di statistica ellenico ha dichiarato che il Pil della Grecia nel quarto trimestre del 2011 ha fatto segnare un -7% su base annuale. E se Atene chiude così il quinto anno consecutivo in recessione, le previsioni per il 2012 non promettono alcun miglioramento. «La situazione della Grecia – ci dice l’economista Alberto Quadrio Curzio – è molto compromessa, anche dal punto di vista sociale e istituzionale. Dal punto di vista economico-finanziario consideriamo due aspetti».



Quali?

L’erogazione alla Grecia di un nuovo pacchetto di aiuti (130 miliardi dopo il precedente da 110) da parte del Fmi e dei Paesi dell’Unione economica e monetaria (Uem), con la partecipazione anche della Commissione europea nella gestione degli aiuti; il consenso di un’ulteriore ristrutturazione del debito da parte di creditori privati e grandi istituti di intermediazione finanziaria. La composizione e l’erogazione di questi strumenti per un’auspicabile soluzione della vicenda greca sono però condizionate all’impegno vincolante di Atene, alla quale viene chiesta l’attuazione di una nuova serie di misure di austerità approvate dal Parlamento, le cui implicazioni avranno effetti sensibili sulla popolazione greca. E dovranno essere garantite indipendentemente dalla maggioranza che vincerà le elezioni di aprile.



Quale sarà, secondo, lei l’esito?

Data la situazione, si pongono interrogativi sul “punto di rottura interno”, sociale e istituzionale, alla Grecia che si sommano anche ai quesiti e alle preoccupazioni di quali potrebbero essere gli effetti dell’uscita della Grecia dall’euro sull’Unione economica e monetaria. Adesso l’ipotesi di commissariamento ha praticamente preso corpo. Ma questo andava fatto due anni fa, quando un eventuale finanziamento dei 50-60 miliardi di euro necessari nel 2010 sarebbe stata un’operazione fattibile per Eurolandia.

Cosa succederebbe nel caso di un’uscita della Grecia dall’euro?



Se la Grecia tornasse alla sua moneta nazionale, il primo effetto pesante sarebbe sul Paese stesso, perché una dracma svalutata del 50% sulla moneta unica, rispetto al cambio d’ingresso, avrebbe conseguenze drammatiche, dal momento che la Grecia si troverebbe isolata rispetto al mercato unico. Le importazioni diverrebbero molto più costose e sembra davvero difficile che una svalutazione possa espandere di molto le esportazioni, data la natura dell’economia greca. Anche l’eurozona avrebbe seri contraccolpi.

 

In che modo?

 

Non solo la credibilità dell’Unione monetaria sarebbe duramente colpita per non aver previsto ed essere riuscita a gestire la ristrutturazione di un Paese membro. Si prefigurerebbe la possibilità di uscita di altre nazioni da Eurolandia. Primo candidato sarebbe il Portogallo. Ma ci sarebbero ripercussioni anche su paesi come Italia e Spagna. Nessuno credo voglia ritrovarsi a combattere di nuovo con aumenti dello spread a livelli molto alti e di conseguenza con aumenti dei costi del debito pubblico. Tutto tornerebbe a essere molto più complicato.

 

Potrà servire a qualcosa il Fondo salva-stati?

 

Il Fondo salva-Stati (Efsf) ha emesso finora poco più di 22 miliardi di obbligazioni per effettuare poi prestiti a Irlanda e Portogallo e ha annunciato emissioni per 30 miliardi circa nel 2012 e nel 2013. Davvero troppo poco. Anche se a partire dal 1 luglio 2012 il Fondo salva-Stati lascerà il posto al Meccanismo europeo di stabilità (Esm), il quale avrà natura permanente, le perplessità rimangono. Speriamo tuttavia che la lentezza e la scarsa operatività nel concreto dell’Efsf non vengano “trasferite” all’Esm. C’è necessità di un netto cambiamento di rotta.

 

Prima ha parlato dello spread. In Italia, nelle ultime settimane, ha preso a viaggiare su un trend decrescente. Come mai, secondo lei? Qual è la “soglia di sicurezza” ottimale sotto cui scendere?

 

Lo spread era intorno a 125 punti base nell’aprile dell’anno scorso. Poi c’è stata la crescita fin sopra quota 550 all’inizio di novembre, quindi una discesa intorno a 370 ai primi di dicembre, seguita da una risalita a 530 il 9 gennaio. Tuttavia, poi il differenziale è sceso gradualmente, con oscillazioni minori rispetto al periodo precedente, fino ai 360 punti base circa di questi giorni. Credo che sotto i 200 punti base potremmo ricominciare a respirare. In ogni caso, è davvero riscontrabile un’attenuazione delle tensioni nell’Uem. Ritengo che ciò accada in virtù di due ragioni.

 

Quali?

 

Per il governo Monti, che sta restituendo credibilità all’Italia, terza economia di Eurolandia, la cui crisi avrebbe trascinato con sé l’euro; per il presidente della Bce, Mario Draghi, che ha preso decisioni importanti. Da quando si è insediato, a novembre scorso, ha compiuto due successivi tagli al tasso ufficiale di interesse riportandolo all’1%, che rappresenta il minimo storico. A questo ha affiancato una strategia di misure non convenzionali di politica monetaria, con l’intento di sciogliere lo stretto nodo che attanaglia l’Europa. Ovvero: da un lato placare i mercati creditizi e dei titoli di Stato e alimentare la liquidità bancaria per avviare nuovamente il sistema bancario e supportare la crescita.

 

In effetti, si è parlato molto del ruolo della Bce e dell’operazione straordinaria Ltro. Cosa pensa di questa operazione che si ripeterà a fine mese?

L’asta di liquidità del 22 dicembre è stata un successo. Quasi 500 miliardi di euro sono stati erogati alle banche della Uem all’1% per tre anni, accettando quali garanzie una grande varietà di titoli di credito, purché dotati di una certificazione di qualità del governo o della banca centrale nazionale. Semplificando, si può dire che la Bce dà liquidità alle banche a tasso d’interesse zero. Per l’asta annunciata per fine febbraio, qualcuno ha parlato addirittura che si avvicinerà la soglia dei 1.000 miliardi di euro. Staremo a vedere. Comunque Draghi sta operando molto bene, nell’interesse di Eurolandia, mentre questo non è stato fatto da alcuni capi di stato o di governo di paesi membri.

 

Nonostante la liquidità immessa nel circuito bancario dalla Bce, però, i rubinetti del credito restano chiusi. Perché?

 

Le banche italiane hanno assorbito una più che discreta quantità di liquidità: circa 50 miliardi di euro. In generale, le 500 banche che hanno fruito delle operazioni di rifinanziamento triennali di dicembre hanno destinato quanto raccolto dapprima a quatto usi: rimpiazzo di prestiti avuti con scadenza di un anno dalla Bce; depositi temporanei alla Bce; credito a famiglie e imprese; acquisto di titoli di Stato. Ma gradualmente la situazione si sta modificando a favore di un aumento del credito all’economia, imprese e famiglie, e di acquisti di titoli di Stato di Paesi dell’Uem, piuttosto remunerativi, determinando quindi aumenti di quotazioni e graduali ribassi dei tassi. A mio avviso, in situazioni di pesante recessione, non basta però il credito bancario.

 

E cosa occorre d’altro?

 

Ci vuole una spinta alla domanda e la sola che si può concentrare in poco tempo è quella per gli investimenti. Questo ci riporta agli eurounion bond dei quali abbiamo spesso trattato.

 

(Lorenzo Torrisi)

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