La Grecia è forse la nazione che racchiude in sé il più grande patrimonio mitologico non solo dell’antichità, ma della modernità. Uno dei capisaldi di tale patrimonio è quello della nazionalità. La Grecia che abbiamo imparato ad amare quando eravamo giovani imbevuti di disordinate ma prolifiche letture è la Grecia di Byron che si batte contro i turchi e chiama in suo aiuto i popoli e gli intellettuali. Ma la stessa Grecia non riesce, tuttavia, quarant’ anni dopo la lotta anti-turca a trovare nel suo seno un rappresentante dell’oligarchia terriera che possa fungere da monarca e – allora- i gruppi dirigenti locali son costretti a reclamare l’arrivo d’un re tedesco: Ottone, che nel 1860 s’insedia ad Atene e fonda la triste dinastia che scomparirà con i colonnelli nel 1964.



Del resto, il regime ottomano di possesso della terra vietava la proprietà privata e ne imponeva una gestione statalizzata. In tal modo non formava né aristocrazie, né borghesie terriere. Di lì le debolissime radici industriali e dirigenti della Grecia moderna che tutti, oggi, sottovalutano. L’accumulazione primitiva del capitale fu sempre scarsissima, ieri come oggi, e i ricavi dell’intermediazione dei traffici e delle costruzioni e degli armamenti navali, rapidamente emigrarono – come allocazione proprietaria – al di fuori del territorio greco, verso i più sicuri lidi con il mondo interconnessi, perché centri del capitale finanziario: Londra e New York. Non a caso la rivista più importante per comprendere la Grecia si stampa a New York: è “Hellenic Diaspora”.



È tutto detto. Solo l’elefantiasi statuale e il rentier capitalism immobiliare gonfiato ad arte dalle rimesse degli emigranti (esistono più greci nel mondo che greci che abitino la Grecia) – ben descritto da uno scienziato eccelso come Mouzelis e da un poeta immenso come Seferis – sono stati i fattori costituivi della crescita bassissima, devastata dall’emigrazione con la formazione di un sistema economico rent seeking a bassa intensità di popolazione e bassissimo reddito e altissime disuguaglianze, dove il prelievo fiscale è praticamente impossibile per i bassissimi salari (pari solo a taluni di quelli italici) e la continua esportazione di capitali.



La Grecia fu immessa nell’euro per le stesse ragioni per le quali fu uno dei primi paesi a far parte della Nato: per ragioni geostrategiche. Prima bisognava opporsi allo stalinismo sovietico, poi all’invasione turca e islamica tanto paventata dalla democrazia cristiana greca e dalla destra post-gaullista francese: volevano e vogliono gli immigrati, ma non le nazioni nel concerto europeo; sì alla forza lavoro per lo sfruttamento capitalistico, no alle relazioni interstatuali in un’Europa in cui per forza non si può che avere eguali diritti ed eguali doveri.

La frode sui conti, inoltre, è certo colpa dei governi greci di ogni forma e colore, ma anche dei commissari europei. Non dimentichiamo che il professor Prodi sostituisce Sander accusato di aver coperto la corruzione proprio a partire da Eurostat. Il fallimento della Grecia è il fallimento atteso del fianco Sud dell’Europa e, soprattutto (ed è qui il pericolo da tutti ignorato), del fianco sud della Nato. Ed è questo che deve preoccupare, per le conseguenze di ordine militare ch’esso può assumere. La Grecia, infatti, ha un Pil che non supera l’1% di quello europeo e spegnerlo non sarebbe stato difficile. Sarebbe stato un gioco di ragazzi se solo si fosse subito intervenuti con un finanziamento della Bce: immediato e diretto a sollevare con un po’ d’inflazione e un intervento monetario dello Stato un’economia che andava salvata all’istante, allargando i cordoni della borsa.

La follia germanica è stata quella di pensare di poter salvare le banche tedesche dagli asset tossici greci, che essi avevano nel loro marsupio senza che anche tutta la struttura sociale, prima che economica greca, crollasse sotto i colpi della politica deflattiva europea. La Grecia preannuncia ciò che può succedere all’Europa se la Bce non cambia politica e se la signora Merkel e il signor Sarkozy non perderanno le prossime elezioni, sostituendo la loro logica fallimentare e deflattiva con una logica di deficit spendig, di quantitative easing e di intervento pubblico in economia massiccio e immediato. Ai conti pubblici si penserà dopo se l’inflazione non basterà a curarli: ora bisognerebbe impedire il massacro sociale, la strage degli innocenti, che è in corso. E troppo tempo dovrà ancora passare prima che i due cavalieri dell’apocalisse europei si tolgano di mezzo.

Attendere è inevitabile. Nel mentre l’unica via di uscita non è istituzionale, ma sociale e naturale, ossia fondata sull’autorganizzazione economica del popolo e della povera gente, attraverso società cooperative vere e non fasulle come quelle troppo istituzionalizzate a cui siamo abituati, con banche del tempo e dei beni, forse anche attraverso monete di riferimento sociale e non finanziario, ossia autonomamente create da gruppi sempre più vasti di cittadini sostituendo l’euro come moneta di scambio quotidiana, ponendo freno e argine alla miseria sociale e all’ingiustizia che dei governi scandalosamente classisti stanno imponendo a tutta l’ Europa.

Oggi in Grecia domani in Portogallo, in Spagna, poi in Italia e poi, ancora… in Francia e Germania. L’oligarchia finanziaria non ha patria.

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