E la crisi va. Come previsto. O, semmai, peggio del previsto. Lo certifica anche il bollettino mensile della Bce: nel 2012 l’Eurozona nel suo complesso avrà una crescita negativa dello 0,1%, assai meno della pur striminzita previsione precedente pari allo 0,8%. Ovvero, se si tiene conto dell’inflazione, gli europei saranno a fine anno più poveri del 2%.



Per noi italiani, però, le cose andranno probabilmente peggio: non è esagerato parlare di un’economia in frenata del 2,5%, se non di più. Ad aggravare la crisi, si sa, è la caduta della domanda interna, diretta conseguenza delle manovre di risanamento in atto un po’ dappertutto, con effetti depressivi sui consumi interni. A tutto questo si aggiungono i timori per la frenata della domanda internazionale che stanno mettendo a serio rischio la crescita dell’economia tedesca, che dipende dall’export per il 50%. Anche in questo caso l’Italia non può consolarsi: il made in Italy, che ci ha consentito di restare a galla (anzi, di crescere su molti mercati) pesa per il 26% sul Pil italiano.



A tutto questo va aggiunta la spada di Damocle del prezzo del greggio. Teheran sta mandando segnali eloquenti: prima ancora che scatti l’embargo europeo l’Iran choiuderà i rubinetti. Una misura che avrà scarsi effetti sugli Usa, ove ormai grazie alle ultime scoperte la dipendenza dal Middle East è sempre meno rilevante, o sulla Cina, che anzi intensificherà gli acquisti. Ma comporterà più inflazione per un’Europa già impoverita.

Fin qui il linguaggio delle cifre che solo in parte rendono l’idea dell’impoverimento generale. “Il reddito delle famiglie è in diminuzione continua ormai dal 2008” nota il Cer. È una sgradita novità: “Mai in precedenza si era osservato un periodo tanto prolungato di contrazione della capacità di spesa delle famiglie italiane”. Certo, nel corso degli ultimi mesi sono stati compiuti progressi importanti: lo spread rispetto alla Germania si è ridotto in misura rilevante; le banche, grazie al sostegno di Mario Draghi, hanno evitato il collasso da liquidità e riattivato i canali del mercato interbancario; la Borsa ha compiuto progressi ancor più importanti. Ma ci vorrà tempo perché tutto questo possa riflettersi nell’economia reale che, al contrario, non promette nulla di buono.



Nel frattempo l’edificio dell’Unione europea è sottoposto a un sisma infinito che sta producendo i primi, inquietanti effetti. Per avere un’idea delle tensioni che scuotono quel che resta della casa comune europea, può bastare lo scambio di battute a distanza tra il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble e il presidente greco Karolos Papoulias. Il ministro tedesco, parlando alla radio, ha suggerito una ricetta italiana per Atene: rinvio delle elezioni per almeno un anno, nomina di un governo tecnico di cui non facciano parte i politici, sia il prossimo candidato del centrosinistra Evangelos Venizelos che il leader della destra Antonis Samaras. Solo così, ha aggiunto Schaueble, i partner europei potranno prender per buone le promesse in arrivo dalla Grecia.

“Siamo obbligati ad accettare condizioni molto dure per restare in piedi – ha replicato da Atene il presidente -, ma questo non ci obbliga a sopportare gli insulti del signor Schaeuble. Chi gli dà il titolo di disprezzarci in questo modo? E chi sono questi olandesi? O questi finlandesi? Gente che ci insulta. Ma attenzione: noi non solo abbiamo sempre difeso la libertà del nostro popolo, ma quella dell’intera Europa”. “È evidente che qualcuno sta solo cercando un pretesto per metterci alla porta” ha gridato lo stesso Venizelos, dopo l’ennesimo rifiuto di Bruxelles di allargare i cordoni della Borsa: forse sarà possibile ricostruire la solidarietà tra i popoli europei, ma, al momento, la situazione sembra compromessa.

A fronte della rabbia dei” poveri” cui, con sospetta solidarietà, va la simpatia della stragrande maggioranza dei media italiani, vuoi di destra che di sinistra, sta infatti montando la rabbia dei ricchi, non meno pericolosa. Basti la testimonianza di Gideon Rachman, commentatore del Financial Times in visita al ministero degli Esteri di Berlino. Il diplomatico tedesco, tanto per introdurre l’intervista, gli ha mostrato la rassegna stampa.“Guardi qui, tutto questo è semplicemente inaccettabile”, ha esordito mostrando il titolo d’apertura de Il Giornale in cui si fa esplicito riferimento ai metodi di Auschwitz. Ma la Germania, si sente ripetere sempre più spesso a Berlino, è stufa di esser l’unica ad aver pagato il conto (211 miliardi di contributi alle varie iniziative di salvataggio dei paesi europei, ovvero il 70% del budget annuale della Repubblica) per subire per giunta un trattamento che ritiene ingiusto. Come si fa ad accusarci di nazismo se chiediamo a un Paese dove i barbieri vanno in pensione a 50 anni perché maneggiano “sostanze tossiche” (lo shampoo) garanzie per un cambio di rotta? “La realtà – confessa un anonimo alto dirigente dello staff della cancelliera Merkel – è che l’euro è stata una grossa sciocchezza: abbiamo messo in moto una macchina che non siamo capaci di spegnere”.

Insomma, il contagio della crisi avanza: dalla finanza all’economia, da quest’ultima alla politica, passando per la rivisitazione di tutti i luoghi comuni che si sperava fossero stati cancellati da quasi settant’anni di pace. È forse il momento più delicato in cui, per davvero, solo una forte leadership politica può convincere gli europei a guardare il bicchiere mezzo pieno (ovvero i vantaggi di una vera unificazione europea) e a procedere sulla strada del mercato unico, piuttosto che al bicchiere mezzo vuoto, attribuendo all’euro guasti che hanno altra origine: una popolazione che invecchia, un deficit strutturale indotto da un welfare pensato per un’altra struttura economica e politica, la rigidità sociale.

Il paradosso è che l’unico leader che si vede all’orizzonte della scena europea (come ha certificato Time) è il tecnico Mario Monti, che tra un anno traslocherà da palazzo Chigi.