Uno dei drammi del nostro vivere civile odierno è l’assenza nel dibattito pubblico di ogni riferimento alla storia intesa come costruzione umana, delle persone associate. Un elemento essenziale di essa è stato quel grande moto di emancipazione che sotto l’albero dell’economia morale cattolica e socialista ha fondato quella che si può definire la civilizzazione del mercato. Ossia ha fatto sì che esso si sviluppasse come elemento propulsivo e liberatorio, anziché disgregativo e oppressore, delle persone, singole o associate che esse siano.



Ciò è potuto accadere grazie a un lavoro plurisecolare che inizia in Inghilterra quando alle enclosures e poi all’industrializzazione fanno da contrappeso le prime cosiddette poor laws e, soprattutto, la creazione delle gloriose cooperative dei pionieri di Rochdale. A esse seguirono, sotto l’impulso dei liberali sociali e soprattutto dei cattolici ispirati dal soffio liberatorio della Rerum Novarum, non solo le cooperative di consumo e di produzione lavoro, ma anche quelle di credito. Esse divennero ben presto in tutto il mondo un motore imponente fondato sul risparmio, sul sacrificio famigliare e individuale, che, grazie alle regole del voto per capita, della partecipazione diretta alle assemblee sociali, della socialità dell’azione economica nei confronti dei territori in cui esse sorgevano, trasformarono quel risparmio e quei sacrifici in una risorsa straordinaria per consentire la vita e l’intrapresa degli artigiani e dei commercianti, del popolo lavoratore.



Per questo c’è da rimanere allibiti, costernati, indignati leggendo gli emendamenti 27.015 e 27.016 che sono stati apportati in merito alle banche popolari quotate in borsa nel decreto legge sulle liberalizzazioni che si vorrebbe fare approvare da un Parlamento privato di capacità progettuale e costretto a subire il diktat decisionale dei cosiddetti tecnici del governo Monti: in realtà dei neo-oligarchi inconsapevoli, io credo, addirittura di quanto stanno facendo. Infatti, disapplicare le disposizioni dei commi da 1 a 6 dell’articolo 30 del Testo unico bancario, per quel che riguarda le banche popolari quotate, significherebbe distruggere queste ultime e mandare al macero due secoli di sacrifici che in tutto il mondo si sono trasformati in azione benefica per lo sviluppo del capitalismo e nel contempo della sussidiarietà.



Si tratta di emendamenti perfidamente elaborati, perché colpiscono il cuore del sistema cooperativo delle banche popolari: il comma 1 abolisce il voto capitario; i commi 2 e 3 aboliscono il limite al possesso azionario; il comma 4 il numero minimo dei soci; il comma 5 e 6 il gradimento per l’ammissione a socio. Si realizzerebbe in tal modo quello che è stato un obiettivo pervicacemente perseguito per anni dai vertici di Banca d’Italia. Essi non sono mai riusciti a comprendere come la quotazione in borsa, se attentamente limitata e regolata, possa beneficamente sussistere con i principi fondamentali cooperativi. Del resto, tutta la teoria dell’allocazione dei diritti di proprietà, a partire da Hansmann sino alla Caritas in Veritate, e quindi in un orizzonte intellettuale tra i più eterogenei mai esistiti, sottolinea i benefici che possono venire alla crescita economica dalla polifonia delle forme proprietarie e dall’intreccio e non dalla separatezza tra tali diversità proprietarie.

Ciò che i soloni neolibersti non riescono a capire è l’esistenza di una terza soggettività tra lo Stato e il mercato: la soggettività dell’associazionismo, che tutte le teorie endogene della crescita indicano essere la forza propulsiva della crescita medesima. Per questo è devastante assistere a episodi del genere come quelli che qui si ricordano: siamo nel pieno di una profonda crisi economica mondiale e il mondo cooperativo è una delle poche risorse anticicliche di cui disponiamo.

Per questo questi emendamenti sono, prima che un flagrante conflitto di interessi, un atto di stolidità teorica e di crudeltà sociale. Eppure, io che ho fatto il professore tutta la vita, pensavo che i professori avessero un’anima.