Da più parti, e sempre più spesso, il modello socio-economico tedesco è additato come l’ottimo a cui tutti i Paesi dell’Unione europea, presto o tardi, dovranno conformarsi. Anche quando qualcuno provi a dissentire, il dibattito che ne segue sembra inquadrare due schieramenti inamovibili: i rigoristi, difensori del modello tedesco, e i lassisti, più propensi all’indulgenza verso i paesi in difficoltà. Le righe che seguono compiono una breve indagine su alcuni aspetti poco divulgati del sistema tedesco con l’auspicio di uscire dalla logica dei blocchi contrapposti e contribuire all’attuale dibattito sui modelli di crescita in Europa.



Il principale totem venerato dai rigoristi “pro Germania” è appunto il rigore fiscale di Berlino. Ma una (prometto, rapida) disamina dei conti pubblici mostra che non è tutto oro quel che luccica nelle casse tedesche. Un numero su tutti: secondo dati Bundesbank, in Germania il 40% del debito pubblico è detenuto in fondi speciali di investimento. Nulla di illegale, sia chiaro, ma sulla base di sofisticate regole di consolidazione fiscale non sempre tali capitoli di spesa contribuiscono al calcolo del debito pubblico.



È il caso, ad esempio, dei fondi di investimento Itf, destinati, tra l’altro, a tecnologie rinnovabili. Secondo una ricerca Natixis, tra il 2009 e il 2011 il governo tedesco ha inserito in tali fondi soprattutto incentivi alla spesa delle famiglie per un totale di quasi 20 miliardi di euro, ossia l’1% del Pil. Dov’è il limite tra spesa a supporto dei consumi e investimenti nella green economy? La definizione si gioca sedendosi al tavolo delle trattative con l’Eurostat e i paesi capaci di buon gioco di squadra (Ministeri, Banca centrale, Istituto di statistica nazionale) spesso spuntano trattamenti più accondiscendenti.



Qualcosa di simile è accaduto con i fondi per la riunificazione (pari a quasi tre punti di Pil) e per il passivo della Kreditanstalt für Wiederaufbau (l’equivalente della Cassa depositi e prestiti), considerata fondo di investimento privato con il beneplacito dell’Eurostat. In quest’ultimo caso sono usciti dal perimetro del debito pubblico 432 miliardi di euro.

C’è poi un aspetto più strategico, che trae fondamento anche dalla gestione efficiente del debito pubblico, ma riguarda soprattutto gli assetti del modello tedesco al centro del dibattito. Con la caduta del muro di Berlino, la Germania si è trovata a integrare 15 milioni di persone provenienti da un’economia pianificata al collasso. Per quanto il muro sia letteralmente crollato “dalla sera alla mattina”, la Germania Ovest, e con lei tutto il blocco occidentale, lavorava a questo progetto da decenni e, questo fu un grande merito, non si lasciò cogliere impreparata. La ricetta elaborata a Berlino nei primi anni ‘90 regola ancora il modello socio-economico tedesco e si basa, oggi come allora, su tre pilastri: il già citato rigore fiscale, l’efficienza del welfare e una produzione rivolta all’esportazione.

Anche il welfare ha luci e ombre. Tra le prime ci sono le grandi riforme in materia di previdenza e lavoro: ad esempio, l’innalzamento dell’età pensionabile, la riorganizzazione della spesa sanitaria e gli aumenti salariali legati alla produttività. D’altra parte, è indubbio che al welfare tedesco si attribuiscano benefici di cui non dovrebbe fregiarsi. Ad esempio, i sofisticati meccanismi che regolano la cosiddetta “Iva sociale” (un sistema per trasferire il peso fiscale dai lavoratori ai beni di consumo) non hanno in alcun modo ridotto le spese contributive a carico dei salariati. A rivelarlo è una ricerca Natixis che incrocia dati del ministero federale per le Politiche sociali con statistiche Bundesbank: attraverso un trasferimento di fondi, l’aumento di imposte indirette quali l’Iva è da anni dirottato sull’abbattimento del debito pubblico con l’evidente obiettivo di evitare troppi tagli alla spesa. Dalle parti di Maastricht non faranno salti di gioia.

Ma – qualcuno dirà – il modello tedesco è comunque competitivo. Vero e qui arriva il colpo di scena: negli ultimi dieci anni le forme di contratto atipiche sono arrivate a coprire il 23% della forza lavoro, portando anche un 3% di impiegati a tempo indeterminato ad abbandonare il welfare tedesco in cambio di lavori flessibili. Insomma, niente di diverso da quanto accaduto un po’ in tutta Europa, Italia inclusa.

Per quanto riguarda il terzo pilastro, la capacità di esportare, i vantaggi per un sistema economico sono certi, ma nel caso tedesco da dove arrivano? Secondo dati Fmi, a fronte di una domanda interna di beni relativamente stabile (+30% in 20 anni), il volume dell’import-export tedesco nello stesso periodo è più che raddoppiato grazie al traffico di merci in transito verso altri paesi dell’Unione. Una conferma del fenomeno arriva dall’Eurostat: oggi il 71% delle esportazioni tedesche è rivolto verso altri paesi europei e addirittura la Germania è l’unico Paese ad aver incrementato la propria quota di esportazioni intra-Ue nel decennio 2001-2011 (incremento a cui corrisponde une perdita significativa per Italia, Francia e Regno Unito).

La ragione di questa nuova spinta all’export, quindi, non è da cercare nella competitività di un modello sociale, quanto nell’ottima capacità logistica che connette porti e aeroporti tedeschi (Amburgo e Francoforte, in primis) alle principali direttrici del commercio europeo. Niente di sbagliato: gli investimenti in infrastrutture sono encomiabili e la politica di Berlino è stata senza dubbio lungimirante. Ciò non toglie che la Germania goda, insieme all’Olanda (che ha visto dinamiche di crescita simili), di una predisposizione geografica e, per certi aspetti, storica a questo ruolo: imporre ad Atene lo stesso modello significherebbe spostare il Pireo da qualche parte sulle coste dell’Atlantico. Realistico?

La sfida di un’Europa unita, quindi, non può prescindere dalle differenti identità dei Paesi membri: a storie diverse corrispondono diversi tentativi di risposta alle esigenze delle persone. Quando questi tentativi falliscono, chi – a ogni livello – crede nel futuro dell’Unione deve intervenire con fermezza e senza indugi. In questo modo il lavoro per l’integrazione riguarda tutti e non esclude sorprese: magari chi ha fatto di efficienza e logistica il proprio credo deve ancora scoprire che tutto questo carico di storia e tradizioni, anche in tempi di crisi e riorganizzazioni, resta la vera ricchezza per un’Europa dei popoli.