«Ci sono diverse affermazioni di Marchionne che mi hanno colpito, e in particolare ho trovato agghiacciante la frase con cui si conclude l’intervista. Il giornalista chiede quali stabilimenti verrebbero sacrificati se le esportazioni verso gli Usa non funzionassero, e l’ad del Lingotto risponde citando il film “La scelta di Sophie” (Sophie’s Choice ndr) e dice: “Alla fermata del treno il nazista chiede a Sophie uno dei suoi due figli. In caso contrario li avrebbe ammazzati tutti e due. Sophie resiste, ma alla fine deve scegliere e passa il resto della sua esistenza con l’incubo di quella decisione. Dunque, per favore, non me lo chieda”. Sembra quasi che neanche Marchionne creda nei progetti che la Fiat ha annunciato nel 2010, vale a dire grandi investimenti, grandi produzioni e grandi vendite: tutti obiettivi peraltro finora mancati». Il giornalista Gianni Dragoni, inviato de Il Sole 24 Ore, comincia così la sua disamina sull’intervista a Sergio Marchionne che ha occupato due pagine de Il Corriere della Sera di ieri.



C’è qualche altro passaggio che l’ha colpita?

Quello in cui Marchionne afferma che “di troppa storia si muore”: è come se stesse parlando di globalizzazione, ma quando a dirlo sono i grandi manager sembra quasi che dovremmo portarci a un livello di diritti più basso, e non a uno di equità. Come se non bisognasse portare la democrazia, anche del lavoro, dove non c’è. Questa è solo la mia interpretazione di una frase che in realtà può avere tanti altri significati, ma devo ammettere di non aver gradito questo passaggio, soprattutto se vediamo cos’è stata la Fiat, cos’è oggi e cos’è  questo “secondo Marchionne”.



Cosa intende?

Il “primo Marchionne” è durato fino al 2007, ma dalla vicenda Pomigliano in poi ha cominciato a professare una dottrina verso il mondo del lavoro e degli operai diversa da quella precedente. Prima diceva che non bisognava “picchiare” sugli operai, sulla linea di montaggio, mentre adesso sembra che l’obiettivo sia sempre di più quello, anche se continuano a non esserci nuovi prodotti e nuove macchine. In realtà, a me colpisce proprio quello che non c’è: per tutta la lunga intervista, e per quanto le domande siano accurate, mi sembra che ci sia un Marchionne che vuole assolutamente sottrarsi al problema del declino della Fiat.



Marchionne dice che “tutti gli stabilimenti staranno al loro posto. Abbiamo tutto per riuscire a cogliere l’opportunità di lavorare in modo competitivo anche per gli Stati Uniti, ma se non accadesse dovremmo ritirarci da 2 siti dei 5 in attività”. Secondo lei, quali potrebbero essere i due siti “sacrificabili”?

Certamente non quello di Melfi, che è il più nuovo e con impianti più vicini a un livello di produttività internazionale. Per Pomigliano il rischio è sempre presente, anche se avendo introdotto degli accordi particolari, la Fiat ha fatto dei piccoli investimenti che altrove non sta facendo. Credo invece che uno dei primi a rischiare sia quello di Mirafiori, ma per un motivo anche extraindustriale, cioè immobiliare.

Si spieghi meglio.

Essendo in un’area centrale di Torino, la Fiat potrebbe anche pensare di liberarsi della fabbrica e ottenere così introiti importanti. Uno scenario certamente triste, ma sono dell’idea che la linea pluriennale della Fiat sia proprio questa. Cassino e Atessa sono invece collocabili, almeno per il momento, in una “zona grigia”.

Mirafiori è però l’impianto produttivo di Torino, sede storica dell’azienda. Se dovesse chiuderlo, la Fiat non perderebbe un proprio simbolo?

Avrebbe certamente questo significato, ma credo che Marchionne ormai non senta più questo legame, che anche per la Fiat e per gli Agnelli è piuttosto labile. È risultata fondamentale la scelta di acquistare la Chrysler, migliore sia sotto il punto di vista commerciale che finanziario. La testa resta quindi in America, indifferentemente da quella che sarà la localizzazione, per cui Torino non è più la “capitale” della Fiat, ma una “provincia”.  

    

Nell’intervista viene fatto notare a Marchionne che “Ford e Gm varano piattaforme da 2 milioni di pezzi”, e lui risponde che “oltre il milione le economie di scala tendono a esaurirsi”.  È davvero così?

 

Generalmente, più grande è la scala e più grandi sono le economie. Bisogna però sottolineare che un milione è già un numero molto elevato di unità, e andando molto oltre questa cifra la sua affermazione potrebbe essere vera. Bisognerebbe quindi conoscere meglio i dati, ma in generale non mi trovo d’accordo con quanto dichiarato. Tra l’altro Marchionne dice che le economie di scala “tendono” a esaurirsi, che sembra ancora una volta voler nascondere una difficoltà. Del resto, qualche anno fa nasceva il progetto Fabbrica Italia, con cui si annunciava di voler arrivare alla produzione di sei milioni di automobili, inclusa la Chrysler, entro il 2014. Già quest’anno tutti i maggiori esperti, attraverso le analisi sui risultati della sola Fiat, hanno stabilito che un progetto del genere non è più realistico.  

 

Marchionne dice anche che “la Fiat ha scelto di rallentare il lancio dei nuovi modelli per la scarsità della domanda in Europa”, ma gli viene fatto notare che i concorrenti hanno fatto l’esatto opposto. Ecco quindi, sottolinea l’ad del Lingotto, “che Peugeot-Citroen, Opel, Renault e la stessa Ford Europe perdono soldi nel Vecchio Continente”. Crede quindi che la strategia di Marchionne si sia rivelata giusta?

 

No, non credo che la Fiat abbia fatto bene. Un problema strutturale, che esiste da prima dell’era Marchionne e che esiste tutt’ora, è quello di non essersi mai veramente allineati alla concorrenza. Marchionne sembrava aver cominciato con una politica diversa, ma successivamente si è fermato. E se la Fiat ha ritardato il lancio dei nuovi modelli è perché ha paura di investire e perché non si sente sicura. Inoltre l’ad del Lingotto cita Peugeot, Renault e altri, ma non per esempio le case tedesche, come Bmw, Audi e Volkswagen, che invece si rinnovano in continuazione.

 

Ma allora Marchionne cosa sta aspettando?

In poche parole credo che stia aspettando l’occasione per volare via. Magari sta aspettando un diverso contesto politico o magari un pretesto. Forse proprio “picchiando” sui diritti e sulla fabbrica può arrivare a ridurre e ridimensionare l’attività in Italia. Se l’obiettivo fosse quello, è chiaro che i paesi più maturi e industrializzati non potranno mai essere competitivi con il solo costo del lavoro, quindi non è detto che una politica di questo tipo sia poi così sostenibile.

 

Passiamo alla vicenda Alfa Romeo. Marchionne dice di non volerla vendere a Volkswagen  perché in America serve. Secondo lei, riuscirà a rilanciarla?

 

Per rilanciarla è necessario fare modelli nuovi, azzeccati, che poi vengono successivamente aggiornati negli anni successivi. Negli ultimi anni l’Alfa, prima con la Mito e poi con la Giulietta, sta andando meglio anche rispetto alla Fiat, ma il mercato americano è davvero molto competitivo e non saprei dire se riuscirà a farcela. Con la 500, la Fiat si era posta l’obiettivo di vendere circa 50-60mila unità, ma ne ha vendute circa 26mila, quindi un numero chiaramente insufficiente.  

 

Marchionne è convinto che Fiat abbia una straordinaria opportunità negli Stati Uniti. Secondo lei, “le fabbriche italiane si salvano solo se esporteranno in America”?

 

Le fabbriche italiane potrebbero salvarsi anche in Europa, dove la Fiat ha perso quote di mercato sia nel 2010 che nel 2011. Il mercato europeo si è certamente contratto, ma la Fiat lo ha fatto ancora di più, e ha perso quote. Non è necessario quindi dover vendere in America, un Paese che ha acquisito questa enfasi solo dopo l’acquisto di Chrysler. Inoltre, l’esempio della 500 di cui abbiamo parlato prima di certo non rappresenta un segnale positivo. L’America è un mercato esigente e non è facile far accettare un certo tipo di automobile, ma la cosa davvero importante è che ogni anno le vendite aumentino, e non diminuiscano come invece sta accadendo alla Fiat che, dietro tutte queste parabole americane, nasconde un reale declino.

 

(Claudio Perlini)