C’è un passaggio clou dell’intervista che Sergio Marchionne ha rilasciato a Il Corriere della Sera la scorsa settimana che dice più di molte dissertazioni sulla crisi, di tante polemiche sulla flessibilità del lavoro e della corsa alla successione al vertice di Confindustria. Massimo Mucchetti ha domandato a Marchionne: “La Fiat Auto ha lasciato Termini Imerese. Le restano Mirafiori, Cassino, Atessa, Melfi e Pomigliano. Se non funzionassero le esportazioni verso gli Stati Uniti, quanti sarebbero i siti eccedenti?”. La risposta dell’amministratore delegato della Fiat è stata la seguente: “Tutti gli stabilimenti staranno al loro posto. Abbiamo tutto per riuscire a cogliere l’opportunità di lavorare in modo competitivo anche per gli Stati Uniti, ma se non accadesse dovremmo ritirarci da 2 siti dei 5 in attività”.



Nelle parole di Marchionne ci sono novità rilevanti. Fino alla scorsa settimana tutta l’azione del capo azienda del Lingotto era stata rivolta in Italia ad affermare alcuni principi per molti versi rivoluzionari nel nostro Paese: l’organizzazione dei grandi stabilimenti manifatturieri va ripensata, serve collaborazione e non antagonismo da parte dei sindacati, l’impresa deve aumentare al massimo la produttività, gli stipendi devono essere commisurati al merito, la flessibilità anche in uscita non va demonizzata.



I concetti di Marchionne si racchiudevano in una frase ben comprensibile agli addetti ai lavori: le intese aziendali devono essere esigibili. Ossia, gli accordi aziendali devono essere poi gestiti dalle organizzazioni che firmano questi accordi innovativi, senza intoppi, intralci e azioni di disturbo. Da questa impostazione nascono le intese di Pomigliano, di Mirafiori e di Grugliasco firmate da Cisl, Uil, Ugl e Fismic, e non dalla Fiom-Cgil.

L’intervista al Corriere fa segnare una svolta nel Marchionne-pensiero. Infatti, il capo azienda del gruppo torinese dice implicitamente: l’esigibilità dei contratti, pur assicurata negli stabilimenti italiani della Fiat grazie a sindacati riformatori e non antagonisti, non basta alla sopravvivenza degli stessi. Una bella differenza rispetto a quanto sostenuto fino a qualche giorno fa. Ma anche un altro bagno di realismo che arriva dal Marchionne-pensiero. Prima, tutto rivolto all’incremento della produttività, alla lotta ai fannulloni e agli assenteisti. Ora, quasi un contrordine: non basta la produttività, non bastano gli accordi aziendali innovativi, non basta avere rappresentanze sindacali che non si ispirano all’antagonismo politico e sociale. Il messaggio chiave, adesso, diventa il seguente: tutto dipende dalla domanda. Ovvero: se i consumatori (soprattutto americani) continueranno a comprare meno autoveicoli, io non posso garantire che manterrò attivi gli stabilimenti italiani. E visto che in Europa c’è già capacità produttiva in eccesso, non solo in casa Fiat, il messaggio è meno sibillino di quanto possa sembrare.



Quali stabilimenti chiuderà se si avvereranno i presagi peggiori? Marchionne non ha precisato quali, ma si può escludere Atessa dove si fanno veicoli commerciali e Melfi, il centro riconosciuto più efficiente anche da un osservatore come Mucchetti. I maggiori indiziati restano Pomigliano d’Arco, Mirafiori (che produce un quinto del necessario a stare in equilibrio) e Cassino (tanti robot, ma modelli non sempre di successo). Proprio quelli dove il pensiero all’americana di Marchionne si è tradotto, o si sta traducendo, in realtà.

Ma la sortita del capo azienda della Fiat avrà riverberi anche nella successione in corso alla presidenza di Confindustria. Alberto Bombassei, patron di Brembo, appoggiato da Marchionne nella corsa alla successione a Emma Marcegaglia, non potrà non avere effetti negativi dall’esternazione di Marchionne. Già l’amministratore delegato della Fiat non riscuote troppi consensi tra gli imprenditori italiani, almeno nelle dichiarazioni pubbliche. E ora con l’intervista al Corriere chi – come il candidato Giorgio Squinzi di Mapei – non ha mai speso parole di elogio o almeno di condivisione per le idee di Marchionne potrà affermare: ci ha dato lezioni di relazioni industriali all’americana, e ora nonostante gli accordi aziendali della Fiat firmati a sua immagine e indicati come un modello di innovazione e prosperità ci dice che è pronto a chiudere altri due stabilimenti in Italia.