Ieri, in commissione Industria del Senato, Mario Monti è tornato sul tema dell’Imu per tentare di placare le polemiche che si sono scatenate in questi giorni. Il premier ha inteso dare una risposta «chiara e inequivoca» alle accuse di voler stangare i beni immobili della Chiesa, mettendo in difficoltà le migliaia di scuole paritarie che già ora faticano a far quadrare i bilanci. Le scuole che «svolgono la propria attività con modalità concretamente ed effettivamente non commerciali» saranno esenti dall’Imu, ha detto il capo del Governo. Rassicurazioni in questo senso erano già venute dal ministro Passera, che aveva detto di voler fare «molta attenzione» al non profit. Sul senso delle parole di Monti interviene Andrea Perrone, docente di diritto commerciale nell’Università Cattolica di Milano.
Saranno esenti dall’Imu le scuole «che svolgono la propria attività in modo concretamente non commerciale» ha detto Monti ieri in Commissione. Ci può dire quando una scuola svolge invece una attività commerciale?
Lo fa quando svolge la propria attività con scopo di lucro, cioè quando gli utili e gli avanzi di gestione sono destinati ai “proprietari” della scuola, incrementandone il reddito. Quando invece gli utili non sono distribuiti e sono, al contrario, reinvestiti, non si ha attività commerciale. Ottenendo, quindi, l’esenzione.
Dove si fonda la dichiarazione di Monti?
La giustificazione del mancato pagamento di un’imposta può essere individuata nel fatto che l’attività è svolta senza scopo di lucro, nel fatto che è rivolta a fini di interesse generale o nella presenza di entrambe queste condizioni. Alcuni ritengono che lo svolgimento di un’attività di interesse generale possa giustificare da sola l’esenzione. Monti, invece, ha precisato che occorre anche, come ulteriore requisito, l’assenza dello scopo di lucro.
Una cooperativa sociale oggi non paga l’Imu. Ma se il criterio ispiratore è che paga l’Imu chi iscrive utili a bilancio, cosa farà un ente non profit che svolge un’attività capace di generare un profitto?
Che un soggetto nello svolgimento di un’attività economica generi un profitto non è di per sé un problema, anzi è auspicabile. La vera questione è chi si appropria del profitto. Nelle società il profitto è distribuito tra i soci, negli enti senza scopo di lucro è reinvestito nell’attività svolta. Come dicevo, unitamente al fatto che l’attività abbia carattere di interesse generale, il vincolo di non distribuzione degli utili giustifica un particolare trattamento fiscale. Dunque, se una cooperativa sociale svolge un’attività di impresa per finalità di interesse generale, il fatto che non distribuisca gli utili giustifica l’esenzione. Lo stesso vale per una fondazione che gestisce una scuola.
Esatto. Il primo è lo svolgimento di un’attività di interesse generale; per cui non tutte le attività senza scopo di lucro sono, di per sé, meritevoli di agevolazione, ma lo sono soltanto quelle che con carattere di interesse generale. E l’educazione vi rientra certamente, insieme a molte altre.
Quale tipo di attività invece potrebbe non essere compresa?
L’attività associativa con finalità di ricreative. Pur potendo essere svolta senza scopo di lucro, può non avere i requisiti di interesse generale che sono molto più evidentemente propri di una scuola.
Insomma: tu – ente – fai del bene allo Stato, e lo Stato non ti fa pagare le tasse. A questo punto le chiedo: cosa vuol dire interesse generale?
Qui la questione si complica, perché sulla definizione di che cosa sia di interesse generale le posizioni – culturalmente e politicamente – sono molto diverse. Storicamente l’ordinamento italiano ha risolto il problema facendo coincidere le attività di interesse generale con le attività svolte in alcuni ambiti definiti dalla legge in modo espresso (ad es.: assistenza, educazione, cultura): chi opera in tali settori, svolge attività di interesse generale.
E il secondo criterio invece?
È quello della non distribuzione degli utili.
Sul quale si concentra prioritariamente l’azione del governo. Perché?
L’esperienza dimostra purtroppo che alcuni enti non profit sono, in realtà, degli enti lucrativi «camuffati» con lo scopo di evadere il fisco. La preoccupazione di evitare questi abusi giustifica il vincolo della non distribuzione degli utili. Il profitto, in questo modo, rimane nel circuito del soggetto che lo ha prodotto, a beneficio della sua attività e non dei suoi «proprietari». Di fronte al rischio di vestire una società di capitali da ente non profit per conseguire un profitto senza pagare le tasse, si vincola il profitto all’attività dell’ente. Mi pare essere questa la preoccupazione che ispira il governo.
Perché, secondo lei, il tema dell’esenzione Ici si trova nel dl liberalizzazioni?
La controversia sull’esenzione dall’Ici è stata impostata nei termini di una possibile violazione delle norme Ue che vietano gli aiuti di Stato, così considerando la disciplina previgente come contraddittoria con i principi europei in materia di concorrenza: se ci sono soggetti che hanno un trattamento fiscale preferenziale rispetto ai loro concorrenti, vuol dire che lo Stato li sussidia in violazione delle regole sulla concorrenza. Se si imposta la questione in questi termini, la collocazione della norma in un provvedimento diretto a favorire la concorrenza trova facilmente una spiegazione.
È la sola possibile?
Personalmente penso che, come spesso accade in queste situazioni, si sia colta l’occasione del provvedimento sulle liberalizzazioni per sciogliere una serie di nodi politicamente rilevanti. Il tema dell’Ici, culturalmente controverso e «sensibile», era sul tavolo; per risolverlo si è colta al volo l’opportunità offerta dal decreto sulle liberalizzazioni. Se a tutto questo si aggiunge che veniamo da una disciplina con un margine di interpretazione sufficientemente lasco, si hanno tutti gli elementi per capire la vicenda.
Ma alla fine lei come giudica le intenzioni del governo?
Il punto di equilibrio che mi sembra sia stato raggiunto tiene insieme due esigenze: la prima è quella di riconoscere la valenza di interesse generale di un servizio prestato da soggetti privati, in una logica di sussidiarietà; la seconda è quella di evitare abusi. E il tema del beneficio solo per i soggetti che non distribuiscono gli utili si può facilmente spiegare da quest’ultimo punto di vista. Dopodiché, occorre verificare se le implicazioni concrete di questa scelta – benché non volute in via di principio – nella realtà non finiscano per pregiudicare l’effettiva possibilità di svolgimento di attività di interesse generale.
E questo è un altro capitolo.
Sì, prettamente politico. In altri termini, l’equilibrio realizzato dalla norma è molto sensato. Se, però, la sua applicazione genera dei costi che fanno chiudere – per esempio – il 50 per cento delle scuole paritarie, occorre domandarsi quali ulteriori soluzioni debbano essere individuate per consentire che, in concreto, gli enti non profit possano continuare a svolgere un’attività espressamente riconosciuta come di interesse generale.