“Non puoi più essere quello che eri”. Questo verso di Charles Ramuz in quella “Histoire du soldat” scritta durante la Prima guerra mondiale e messa in musica da Igor Stravinskij, dovrebbe essere lo slogan dell’eurozona, se non della stessa Unione europea, a una settimana dal secondo accordo per “salvare” (non si comprende bene da cosa e da chi) la Grecia. Nei primi giorni si è bevuto molto “Cremant”, il prosecco francese che si produce in Alsazia, Borgogna e nella regione di Bordeaux, ma non dello Champagne (bottiglie di “Veuve Clicquot” non sarebbero state in linea con l‘”austerity” di rigore). Adesso, però, è il momento di riflettere sulle implicazioni.
Il primo accordo – quello del 9 maggio 2009 – era un brutto colpo alla carta fondamentale dell’eurozona (il Trattato di Maastricht) che vieta salvataggi e, se fosse stata in vigore, avrebbe costretto il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia a chiudere i battenti, svendere gli immobili e portare dal rigattiere i mobili di ufficio e le macchine da scrivere. Dopo il secondo, l’eurozona è un “ferito a morte”, come il titolo del romanzo che rese celebre l’allora giovane Raffaele La Capria.
La ristrutturazione del debito della Grecia è la più vasta effettuata in epoca moderna in tempo di pace in uno Stato industriale a economia di mercato. I creditori subiranno mediamente una perdita del 75%, rispetto al 76,8% accusato con la ristrutturazione del debito dell’Argentina e all’89% con quella dell’Iraq. I calcoli sono stati inviati ai propri clienti da Gramercy, la finanziaria americana maggiormente coinvolta nella ristrutturazione del debito argentino. Quindi, un gruppo che se ne intende. Se la ristrutturazione va in porto (mancano alcuni tasselli, di cui stranamente la stampa, anche quella economica, non scrive), la Grecia potrà, d’un sol colpo, tagliare 106 miliardi di euro da uno stock totale di debito di 373 miliardi di debito.
Altri Stati dell’eurozona sono alla ricerca di un “taglia-debito” (Irlanda, Portogallo, Spagna e – perché no? – Italia). Visto il precedente della Grecia, cosa impedisce loro di chiedere un trattamento analogo? L’orgoglio nazionale, si potrebbe rispondere. Ma con l’orgoglio non si frena la piazza e non si cede, alle prime elezioni, il governo all’opposizione. Soprattutto, non si mangia.
Tanto più che i precedenti non mancano. Quando nel 1987 scoppiò la crisi del debito messicano, da Città del Messico si tentò, dapprima, un’impossibile procedura fallimentare (non esiste un diritto commerciale internazionale che regola i fallimenti di Stati) e, successivamente, una maxi-operazione di salvataggio, poiché l’insolvenza avrebbe travolto il fior fiore delle grandi banche americane. Altri Stati dell’America Latina, prima, e di altri continenti, poi, si accodarono sino a giungere a una soluzione articolata su flessibilità dei cambi – in certi casi ritorno all’inconvertibilità – e programmi di insolvenze pilotate con i “Brady Bonds” e altri strumenti. Dieci anni dopo, vicende analoghe ci furono con lo scoppio della bomba del debito della Corea del Sud – da locale la crisi divenne “asiatica”, con cambi fluttuanti e quant’altro.
In un’unione monetaria imperfetta e traballante come quella europea, ciò vorrebbe dire intonare il “Requiem”, sempre che non si faccia ricorso a proposte astute, come quella di André Cabanne, di avere un sistema duale: monete nazionali per la transazioni interne e l’euro per quelle con il resto dell’eurozona e del mondo. In effetti, dell’unione monetaria tanto cara a Delors, Ciampi e altri resterebbe ben poco: un capitolo nei libri di storia economica.
L’alternativa consisterebbe nel fare un doppio salto mortale con capriola: correre all’unione politica (andando ben al di là del Fiscal Compact) e definire trasferimenti di lungo periodo dalle aree ad alto reddito a quelle in ritardo di sviluppo. Come in Italia si fa da sempre nei confronti del Mezzogiorno e in Francia (per la Corsica e l’Auvergne) in base e meccanismi democratici.
Con lingue, culture e secoli di storia differenti, è l’Europa pronta a farlo? C’è da dubitarne.