Benedetto fu lo spread. Senza quella formula magica, sconosciuta ai più come si conviene alle magie di rango, l’Italia non avrebbe percorso così in fretta e con tanta virtù il cammino delle riforme. A dirlo, davanti alla platea dei potenti del mondo, è stato Mario Draghi in persona. Alias Super Mario come viene chiamato dai banchieri d’Europa, come sottolinea il Financial Times che spiega pure la ragione di tanta popolarità: se Draghi non avesse aperto i forzieri della Bce, garantendo prestiti alle banche all’1% a fronte di collaterali al momento illiquidi, molti istituti avrebbero rischiato una brutta fine innescando un circolo vizioso. Al contrario, la liquidità immessa nel sistema ha permesso alle banche di respirare e ai governi di guadagnare settimane preziose.



E così l’Italia, in particolare, ha avuto modo di varare sia il “salva-Italia” che il “cresci-Italia”. In parallelo, ancor più importante, Mario Monti ha potuto sfoggiare la sua indiscutibile competenza e l’ancor più alto prestigio sia livello europeo che nell’ambito del G20. La grande stampa anglosassone, dopo anni di tiro al bersaglio contro il governo del Polo (e l’Italia in genere) ha sottolineato il ruolo che l’Italia può recitare contro l’austerità senza sbocchi predicata dalla Germania. Frau Merkel, pur senza allargare i cordoni della borsa, ha elogiato gli sforzi del Bel Paese.



In parallelo, la grande finanza internazionale, abituata a “votare con i piedi”, ha riscoperto la starda che porta ai Bot e ai Btp. Non è ancora stato fatto un conto preciso della ritirata dei capitali che ha investito l’Italia nella scorsa estate, da quando, a fine primavera, si scoprì che Deutsche Bank aveva azzerato la posizione nel debito sovrano italiano fino alla fase più acuta di fine novembre. Si sa soltanto che la percentuale di titoli di Stato controllata da mani internazionali è scesa dal 50% al 38% circa. Nel frattempo, a giudicare dall’andamento dei depositi del sistema, almeno 70-80 miliardi posseduti da stranieri (in primis multinazionali e gestori di liquidità) si sono rivolti verso altri lidi.



La conferma l’ha data nientemeno che Jamie Dimon, ceo di JP Morgan, a Davos: “Qualche mese fa – ha detto – abbiamo preso in seria considerazione l’ipotesi di uscire del tutto dal Sud Europa”. Poi il trend è cambiato. Ha cominciato Goldman Sachs suggerendo l’acquisto dei Btp a fronte della vendita di Oat francesi. Poi è stata la volta di Rbs. Intanto sull’offerta dell’Eni (un bond da 1 miliardo) sono piovute richieste per 14 miliardi, al 95% in arrivo dall’estero. E così via.

Tutto questo ha influito sull’andamento dello spread, ovvero la “forbice” che separa i Btp dai Bund tedeschi. Nonostante i tassi tedeschi siano scivolati sotto zero, lo spread si riduce. I rendimenti dei Btp oscillano attorno al 5,70%, ovvero solo 70 centesimi separano il debito italiano da quel 5% che è un po’ la ciambella di salvataggio contro l’assoluta emergenza in cui la finanza pubblica ha vissuto i mesi più difficili. Non è ancora la salvezza, ma abbiamo recuperato 200 punti base dal momento più buio. Altri 150-200 punti base, ha notato David Riley di Fitch, e l’Italia potrebbe rientrare nella normalità. Da questo punto di vista, insomma, è legittimo sostenere che l’Italia è a metà del guado.

Ma manca qualcosa, anzi molto. La svolta, nota Reilly, richiede che l’Italia riesca a crescere dell’1,5%. Il che è un’impresa all’apparenza impossibile, visto che l’Italia, in piena recessione, minaccia di scendere almeno di 1 punto (ma c’è chi teme una caduta del Pil del 2-2,5%). Insomma, come ormai è quasi banale ripetere, l’importante è coniugare la discesa della febbre, cioè dello spread, a un robusto ricostituente, altrimenti il malato Italia ricadrà nella malattia.

Non basta, perciò, accontentarsi del calo dello spread se non ci sarà il necessario colpo di reni sul fronte della crescita. Ma per ottenere questo risultato occorrono capitali. Ovvero la materia prima che il settore pubblico non ha. E che i privati, poco importa se italiani o stranieri, rimetteranno in circolo solo se le condizioni generali di investimento lo consentiranno. È questo il vero valore della partita che si sta aprendo sul mercato del lavoro, l’impegno più ambizioso e profondo di questo esecutivo. Se si convinceranno gli investitori che può valere la pena di investire in Italia anche con un orizzonte superiore a pochi mesi, la partita sarà vinta. Altrimenti no. Le garanzie sulla flessibilità effettiva del mercato del lavoro sono una condizione necessaria seppur largamente insufficiente (non meno importanti l’efficienza della burocrazia o della giustizia) per invertire un trend che dura da fin troppo tempo.

Non è una partita semplice. Ma la cosa più urgente è dare il colpo di manovella iniziale, quello che dia al mondo delle imprese la sensazione che qualcosa sia effettivamente cambiato. Magari ragionando sul caso Fiat dal punto di vista dei risultati e delle prime buste paga intascate dai lavoratori di Pomigliano, piuttosto che sulle questioni di principio sindacali. Guai a rilassarsi: lo spread è mobile.