Disparità di trattamento in Europa, ricapitalizzazioni asfissianti a scapito degli istituti italiani, disputa sul costo del denaro. Sono alcune delle questioni su cui di recente i banchieri italiani si sono concentrati per criticare i dettami dell’autorità di vigilanza europea (Eba). Ma a leggere con attenzione gli ultimi interventi degli esponenti di vertice della Banca d’Italia, spesso le critiche degli istituti italiani hanno le basi fragili.



Innanzitutto, qualche numero fornito la scorsa settimana dalla Banca governata da Ignazio Visco. Tra marzo e dicembre il costo dei prestiti a breve termine alle imprese, inclusi i finanziamenti in conto corrente, è salito di 1,3 punti, al 5%. Anche per i finanziamenti alle famiglie – ha attestato Palazzo Koch – si sono registrati incrementi: il tasso applicato sui nuovi mutui per l’acquisto di abitazioni e quello sul credito al consumo sono saliti in dicembre rispettivamente al 4,3% e al 9,1%, dal 3,25 e 8,7% di marzo. Un’annotazione cronachistica del direttore generale di Bankitalia, Fabrizio Saccomanni, smaschera quanto gli incrementi praticati dalle banche alla clientela siano disallineati con il resto d’Europa: “I tassi applicati sui prestiti bancari nel complesso dell’area dell’euro sono rimasti sostanzialmente invariati tra marzo e novembre”.



Ma è sulle ricapitalizzazioni dettate dall’Eba che i banchieri italiani hanno concentrato gli strali polemici, rivolti indirettamente anche all’Istituto di via Nazionale, giudicato quanto meno atarassico dai vertici dell’Abi presieduta da Giuseppe Mussari. I fatti. Lo scorso 8 dicembre l’Eba ha emanato una raccomandazione a 71 grandi banche europee per costituire un cuscinetto (buffer) addizionale di capitale tale da portare, entro la fine di giugno 2012, al 9% il rapporto tra capitale di qualità più elevata (Core tier 1) e attività ponderate per il rischio. Quattro delle cinque banche italiane che hanno partecipato all’esercizio (Unicredit, Intesa Sanpaolo, Banca Monte dei Paschi di Siena, Banco Popolare e Unione di Banche Italiane), per raggiungere l’obiettivo del 9%, hanno bisogno nel complesso di maggior capitale per 15.366 milioni di euro. In particolare, per Unicredit l’ammontare è di 7.974 milioni euro, e l’aumento è andato in porto; Banca Monte dei Paschi di Siena presenta un fabbisogno di 3.267 milioni di euro; Banco Popolare di 2.731 milioni; Unione di Banche Italiane di 1.393 milioni. Intesa Sanpaolo non ha esigenze di capitale aggiuntivo.



La richiesta di costituire un buffer di capitale aveva due finalità. Primo: ridurre il rischio percepito dagli investitori sulla solidità delle banche (il rischio di controparte), cresciuto per le fortissime tensioni sul debito sovrano. Secondo: costituire un ulteriore cuscinetto patrimoniale per permettere alle banche di far fronte a eventuali ulteriori shock continuando a finanziare l’economia. Nulla di drammatico, quindi, secondo la Banca d’Italia: “Il buffer di capitale è eccezionale e temporaneo – ha spiegato Saccomanni in Parlamento – il suo mantenimento è previsto fino a quando la raccomandazione dell’Eba non verrà revocata o modificata”.

L’Abi ha anche protestato per l’eccessivo peso dato dall’Eba ai titoli di stato in portafoglio che oltre tutto devono essere calcolati al valore di mercato: “La valutazione ai prezzi di mercato delle esposizioni – ha risposto indirettamente Saccomanni – trova una giustificazione alla luce delle eccezionali tensioni di liquidità: in una fase di forte turbolenza, se una banca non riesce a reperire liquidità sul mercato ed è costretta a vendere titoli, lo può fare solo ai prezzi di mercato, significativamente inferiori al valore nominale; ne discende la necessità di richiedere un cuscinetto aggiuntivo di capitale per rassicurare i mercati sulla capacità della banca di resistere a shock avversi”.

Saremo costretti a non acquistare più titoli pubblici a causa di queste regole, è stata la tesi sostenuta per settimane dai banchieri italiani. Tutt’altra la visione di Palazzo Koch: “L’esercizio è stato strutturato in modo da non indurre le banche ad allontanarsi dal mercato dei titoli pubblici. Ai fini del calcolo del buffer, la quantità di titoli in portafoglio e la loro valutazione sono congelate al 30 settembre 2011”.

L’Eba ha voluto colpire le banche spagnole e italiane, favorendo gli istituti francesi e tedeschi, è stata la rimostranza ufficiale di banchieri di peso come Giovanni Bazoli e Giuseppe Guzzetti. Falso, si dice a Londra, sede dell’Eba: le regole dell’autorità di vigilanza europea non hanno riguardato solo le banche italiane e spagnole, visto che quelle italiane devono ricapitalizzarsi per 15,36 miliardi e quelle tedesche devono rafforzarsi per 13,1 miliardi. E poi, ha fatto notare il presidente dell’Eba, Andrea Enria, ai parlamentari, per le banche italiane solo il 3,9% dello shortfall di capitale è attribuibile alla richiesta di valutare al valore di mercato i titoli di stato nel banking book.

Sono stati salvati dal calcolo dell’Eba i prodotti strutturati e più sofisticati, che abbondano nelle banche francesi e tedesche, a detrimento dei titoli di stato, è stata una delle accuse principali dei banchieri italiani. L’esercizio Eba, ha riconosciuto Bankitalia, è stato criticato perché sarebbe parziale in quanto non sottopone ad haircut le attività veramente tossiche, quali i prodotti strutturati. Ma sul punto, ha aggiunto Saccomanni, si è generata qualche confusione: la metodologia utilizzata prevede che a prodotti quali le cartolarizzazioni (inclusi i cosiddetti prodotti strutturati di livello 3, cioè quelli meno liquidi e di più difficile valutazione, come ad esempio le cartolarizzazioni sintetiche) sia applicato, ai fini del calcolo delle attività ponderate per il rischio, il più severo regime regolamentare previsto dalla direttiva comunitaria sui requisiti di capitale (CRD3 o, in gergo, Basilea 2.5) entrata in vigore il 1° gennaio 2012. Risultato: “In paesi diversi dall’Italia, in cui questi prodotti sono diffusi, ciò ha di fatto innalzato le esigenze patrimoniali delle banche”.

Forse solo su un aspetto i banchieri italiani e l’istituto centrale di Palazzo Koch concordano: non c’è un vero e proprio credit crunch, il credito non aumenta, ma non ha un segno negativo. “Nel periodo 2008-11 – ha attestato via Nazionale – la crescita annua del credito al settore privato dell’economia è stata pari, in media, al 3,3% in Italia, contro il 2,8% nell’insieme dell’area dell’euro”.