Forse desideroso di una guerra a colpi di originalità e nonsense contro la Cassazione e la sua sentenza scarcera-branco, l’Istat ha presentato il nuovo paniere per il calcolo dell’inflazione e ha ben pensato di inserirvi all’interno uno dei più colossali flop del comparto tecnologico degli ultimi anni, l’E-book reader e l’E-book download, ovvero gli strumenti per la lettura digitale dei libri. Bizzarrie a parte, entrano nel nuovo carniere anche la mediazione civile e alcune novità nel segmento dei giochi, lotterie e scommesse, dove sono stati inseriti, in aggiunta ai tradizionali giochi numerici e a base sportiva, le lotterie istantanee, le scommesse sportive e i giochi a base ippica.
Il paniere 2012 è composto da 1.398 prodotti, aggregati in 597 posizioni rappresentative (591 nel 2011) e su queste ultime vengono calcolati mensilmente i relativi indici dei prezzi al consumo. Ma l’Istituto nazionale di statistica ha comunicato anche altro. Il tasso d’inflazione annuo a gennaio ha segnato un lieve rallentamento, passando al 3,2% dal 3,3% di dicembre, con un aumento dei prezzi su base mensile dello 0,3%. Sempre a gennaio, i prezzi dei prodotti acquistati con maggiore frequenza dai consumatori – il cosiddetto “carrello” – aumentano dello 0,8% su base congiunturale e del 4,2% su base tendenziale (in lieve rallentamento dal 4,3% del mese precedente). Insomma, inflazione in rallentamento minimo, ma sempre alta.
Ma se normalmente si definisce “inflazione” l’aumento continuo e generalizzato del livello dei prezzi, occorre far capo alla definizione che di essa diede la scuola austriaca con Von Mises per evitare di cadere nel tranello ciclico in base al quale l’inflazione sarebbe l’aumento dei prezzi e i prezzi in aumento causerebbero l’inflazione. Quest’ultima sta infatti a indicare l’incremento della quantità di moneta e di banconote in circolazione e nei conti correnti e non la sua conseguenza, ovvero la tendenza di tutti i prezzi e dei salari di aumentare. Per dirla con l’indimenticato Ugo Tognazzi, «inflazione significa essere povero con tanti soldi in tasca».
Il problema è che in Italia non c’è inflazione reale, visto che gli ultimi dati resi noti dalla Banca d’Italia dimostrano un crollo verticale della massa monetaria in tutte e tre le sue componenti, quindi è escluso un eccesso di circolazione di denaro che giustifichi l’aumento dei prezzi. Nemmeno l’intervento della Bce attraverso il suo programma di liquidità Ltro offre una spiegazione, visto che quanto introitato dalla banche all’1% non è stato immesso nel sistema – con invece fanno le altre banche centrali – ma resta parcheggiato presso la stessa Eurotower attraverso i depositi overnight o, in minima parte, viene impiegato per acquisto di titoli di Stato al fine di schiacciare gli spread. Venerdì scorso, tanto per gradire, i depositi overnight sono saliti 511,43 miliardi di euro dai 488,689 miliardi di euro del giorno prima.
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Cosa spiega, quindi, un’inflazione comunque così alta? Per il professor Giacomo Vaciago dell’Università Cattolica di Milano, quella che scontiamo «è puramente inflazione importata, ovvero dovuta all’aumento dei costi delle materie prime e dei beni d’importazione in un contesto, come quello attuale, già di moderata recessione. Non essendoci aumento né dei consumi, né della massa monetaria circolante, non esistono altre spiegazioni. Stiamo, ahimè, subendo un ciclo economico che non ci vede protagonisti, bensì vittime di dinamiche non interne. C’è poca propensione alla spesa, questo spiega la contrazione della massa monetaria: anche chi ha denaro tende a non spendere, perché il pessimismo in circolazione è molto maggiore rispetto a quanto sia giustificabile».
Alla luce di questa situazione, prende quindi corpo il dibattito sulla Bce e sulla sua politica monetaria che qualcuno vorrebbe espansiva come quella operata da Fed o Bank of England, quest’ultima protagonista di due robuste iniezioni di liquidità reale nel sistema – una prima da 200 miliardi di sterline e una seconda, sul finire dello scorso anno, di ulteriori 75 miliardi – a fronte di un’inflazione sì alta, ma in continua diminuzione: dal 5% di ottobre è già scesa al 4,2% di dicembre, con previsioni di ulteriore abbassamento nel corso dell’anno. Questa è l’inflazione “buona”, quella dovuta a massa monetaria e consumi, la stessa che per Paul Krugman sarebbe l’unica ricetta per l’eurozona al fine di uscire dalla crisi in atto, ovvero tramutando la Bce in prestatore di ultima istanza, capace di dar vita a politiche espansive, incubo però di ogni tedesco che porta nel suo Dna il ricordo di Weimar e dell’iperinflazione che spalancò la strada al Terzo Reich.
Tanto più che in un contesto recessivo per la crescita come quello che stiamo per affrontare, alcuni critici rigoristi pensano che il rischio potrebbe essere quello della deflazione o della stagflazione in stile anni Settanta, ovvero quel combinato di inflazione alta e stagnazione che fece vacillare le teorie keynesiane di politica espansiva dell’economia. Ma al netto di Friedman e delle sue critiche, oggi come oggi appare forse meglio rischiare la trappola della deflazione che morire di inflazione importata a crescita zero: questo, a mio avviso, il grande dilemma che Mario Draghi si troverà di fronte in tempi molto brevi.
L’altro caso, tanto per non farmi dire che evito l’argomento, è quello greco. La Bce subirà o no l’haircut obbligazionario, ammesso e non concesso che questo ci sarà? Non facendolo, infatti, tramuterà immediatamente in subordinato non solo il debito greco, ma tutti i debiti sovrani che ha in pancia, un qualcosa di poco piacevole in una stagione di aste come questa. Facendolo, perderà invece circa 20 miliardi di euro e lo status di creditore privilegiato, ma potrebbe, a questo punto, forzare la mano sugli eurobond. Altra grossa decisione per Draghi, epocale direi. Il problema è che, forse, all’haircut non si arriverà mai, perché la Grecia fallirà prima.
Ieri anche l’Ue, a fronte dello stallo nelle trattative tra governo ellenico, troika e partiti politici che reggono il governo Papademos sulle nuove misure di austerity, ha aperto per la prima volta a questa ipotesi. Ma si è preso (o, forse, perso) altro tempo, rimandando a oggi la nuova tornata di colloqui tra premier e leader politici, spostando di ulteriori 48 ore la deadline imposta dall’Ue per giungere a un accordo da ratificare in un Eurogruppo straordinario. Non sanno come uscirne, a Bruxelles. Io un’idea ce l’ho, invece.
Partiamo da qualche numero e considerazione. Dal 2009 a oggi, i greci hanno tolto dai loro conti corrente 65 miliardi di euro, dati ufficiali comunicati venerdì scorso al Parlamento dal ministro delle Finanze, Evangelos Venizelos: «Di questo totale, 16 miliardi sono stati portati legalmente all’estero», ha confermato. E il resto? Nei materassi, nelle intercapedini oppure in Germania e Svizzera trasportati nei doppifondi dei bagagliai delle automobili: ovunque siano e comunque ci siano arrivati, rappresentano il 20% del Pil ellenico! «Il caso greco è senza speranza», sentenziava nel fine settimana Otmar Issing, membro del consiglio esecutivo della Bundesbank e di quello di governance della Bce: peccato che legalmente non sia possibile cacciare la Grecia dall’eurozona, nonostante un sondaggio della Emnid confermasse che il 53% dei tedeschi sia favorevole a questa soluzione (di più, il sondaggio rivela anche che l’80% dei tedeschi si oppone a rilasciare nuovi aiuti alla Grecia senza riforme aggiuntive).
Che fare, quindi? Ciò che si è fatto, ovvero mettere i politici greci di fronte a un’unica alternativa: o si implementano le riforme in base ai diktat non emendabili della troika oppure niente aiuto finanziario. In questo modo, l’idea è quella che sia la Grecia a decidere il proprio destino. E senza soldi, non si può onorare la scadenza obbligazionaria del 20 marzo per qualcosa come 14,4 miliardi di euro e si va in bancarotta. A quel punto, nessuna ipotesi appare esclusa dal tavolo negoziale. Lo ha detto chiaro, sempre venerdì, il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, secondo cui «la Grecia deve implementare le misure e le riforme concordate e, ovviamente, tutti i partiti politici devono accettare queste misure». Diktat, puro e semplice.
E quanto il default siano ormai nei fatti, con annessa uscita di Atene dall’eurozona, lo dimostra la metamorfosi di molti politici greci di lungo corso, in primo luogo l’ex premier, George Papandreou, che nel fine settimana, parlando ai deputati del Pasok, ha detto chiaro e tondo che la coalizione che regge il governo Papademos dovrebbe restare in carica fino al 2013, scadenza naturale della legislatura ed evitare elezioni anticipate (lo stesso Papademos aveva minacciato di dimettersi se i partiti non avessero accettato il piano di riforme richiesto dalla troika). Scenario classico: il tecnico Papademos gestisce default e ritorno alla dracma, mentre i Papandreou di turno attendono il caos per risorgere come vergini dal mare.
Il riposizionamento della vecchia politica ellenica, quella che ha portato Atene a questa situazione, è già iniziato: il default, quindi, è ipotecato. Inoltre, la sete di denaro della Grecia e dei suoi politici non è affatto stata prosciugata. Lo dimostra il fatto che il secondo piano di salvataggio, quello condizionato alle riforme e allo swap sul debito, sia già stato definito insufficiente, quindi dai 130 miliardi iniziali, si è già passati a 145. Perché? Per l’aggravarsi della condizione economica macro? Non solo. La troika, nei mesi, ha sì imposto tagli di budget e aumenti delle imposte, ma il Parlamento greci non ha mai recepito in pieno queste richieste. o, peggio, i ministri non le hanno eseguite e fatte eseguire. D’altronde, con le molotov che illuminano le strade, anche i tecnici sono un po’ meno tecnici e più umani.
Qualche esempio? Pronti. Nel 2011, il sistema sanitario nazionale greco ha speso 4,1 miliardi di euro (2% del Pil) in farmaci, nonostante la troika avesse fissato un budget di 3,8 miliardi di euro. Che fare, quindi? Tagliare i farmaci o forzare un abbassamento dei prezzi dei farmaci da parte delle case produttrici. Invece, giovedì scorso il ministro della Sanità, Andreas Loverdos, ha assicurato nel corso di un’audizione con i rappresentanti delle aziende farmaceutiche che il budget per il nuovo anno sarà di 3,1 miliardi, a fronte dei 2,1 miliardi previsti dal piano della troika: «Cercherò io un compromesso», ha garantito. Con atteggiamenti simili, oltretutto da parte di tecnici senza necessità di rielezioni, il default appare l’unica via d’uscita.
Molti dati macro, inoltre, lo rendono quasi “favorevole” per Atene. Il deficit di budget nel 2011 ha sì superato il tetto del 9% imposto dalla troika, ma, grazie all’odiata tassa patrimoniale imposta lo scorso settembre e che ha garantito entrate per 2 miliardi di euro supplementari, non ha sfondato il tetto tanto temuto del 9,5%. Ma se il prezzo dei carburanti è raddoppiato nel 2011, così come le denunce per fatti criminali, non tutti i numeri greci parlano di crisi. Lo scorso hanno il settore del turismo ha conosciuto un record, con 16,5 milioni di turisti, il 10% in più del 2010, numero in grado di garantire un 1% in più al Pil, stando ai dati dell’Association of Greek Tourism Companies (Sete). Inoltre, per quest’anno è atteso un altro aumento record, spinto dal turismo russo, cresciuto dell’88% lo scorso anno e capace di compensare alla grande il calo di turisti europei: l’ammorbidimento della politica sui visti d’ingresso si è rivelata un volano.
E la Sete ha le idee chiare, visto che un suo studio rispetto a un’uscita del Paese dall’eurozona ha concluso che un ritorno alla dracma trasformerebbe la Grecia nella mecca globale del turismo per tutte le fasce di budget e il settore conoscerebbe un boom stratosferico. Un paradiso a prezzo di saldo, il quale oggi appare più un inferno di disperazione sponsorizzato dalla troika, con i suicidi saliti del 22%.
Signori, la Grecia è fallita. Ufficialmente. Organizziamo un’uscita soft dall’eurozona, magari con un peg all’euro favorevole e si ristrutturi il debito, lasciando che la svalutazione della nuova dracma tamponi i danni causati dall’austerity a oltranza e dai politici incapaci. Berlino vuole questo, visto che le sue banche hanno scaricato tutti i bonds a scadenza breve che avevano in pancia. La pressoché totale indifferenza dei mercati, azionario e obbligazionario, verso Atene registrata ieri parla la lingua di una bancarotta già prezzata dai trading books: pensiamo al Portogallo, piuttosto, blocchiamo il contagio alla Spagna. Atene, ormai, non fa più parte dell’eurozona.