Pare che l’Imu preveda quale presupposto per l’esenzione la totale assenza di attività commerciali.
Però gli enti senza scopo di lucro in molti casi svolgono attività commerciali. La nostra disciplina tributaria considera “attività commerciali” quelle attività che – seppur svolte in assenza di fini di lucro – si concretizzano in prestazioni di servizi “organizzati in forma di impresa” (cioè con persone e beni dedicati in via non occasionale) e sulle quali l’ente non commerciale paga le imposte.
È importante, però, che il termine “non commerciale” non sia confuso con il termine “non lucrativo”: la non lucratività, infatti, dice della natura dell’ente e della sua proiezione al bene comune.
Un semplice esempio, al solo scopo di rendere evidente quanto affermato: una associazione che svolge una attività di doposcuola, con entrate derivanti da una convenzione con il Comune, svolge – dal punto di vista tributario – attività commerciale. Ma le entrate commerciali servono per dare un servizio di pubblica utilità ai ragazzi che vi partecipano; gli eventuali avanzi di gestione non sono distribuiti tra i soci, ma reinvestiti nell’attività istituzionale. Questa associazione deve scontare l’Imu.
Mi sembra che il dibattito debba esplicitare la ragione dell’eventuale agevolazione. Se, come mi sembra di aver colto dalle dichiarazioni ascoltate in questi giorni, si vuole agevolare il non profit “vero”, cioè quello che non persegue lucro personale ma realizza servizi di pubblica utilità e reinveste gli utili, si tenga in considerazione che esso spesso svolge attività commerciale, e che tale attività – come nell’esempio sopra riportato – non è in contrasto né con la non lucratività, né con il bene comune.
La confusione nasce laddove si contrapponga la pubblica utilità che questi enti perseguono – in assenza di lucro – con l’eventuale strutturazione dell’attività che la disciplina tributaria qualifica come commerciale.
Analizzando la ragione sottesa alle agevolazioni tributarie nel nostro sistema, esse sono, in linea di massima, destinate ad alcune categorie di soggetti: in virtù dell’appartenenza a settori che si intende valorizzare; per l’acquisto di alcuni beni considerati “primari” o comunque importanti; a sostegno di realtà considerate di pubblica utilità. E per molte altre ragioni.
Le agevolazioni di carattere fiscale alle realtà non profit appartengono a quest’ultima categoria.
Pertanto, a mio avviso anche il tema dell’Imu dovrebbe essere portato fuori dalle sacche dello svolgimento – o meno – di attività commerciali, per approdare alla verifica dell’apporto di pubblica utilità di questi enti, realizzato in assenza di lucro personale (non distribuzione di utili). In tal senso il primo passo necessario sarebbe l’esplicitazione – in norma – dell’esclusione dei soggetti che la categoria fiscale di appartenenza già considera “di pubblica utilità”, come le Onlus.
Ricondurre le agevolazioni all’assenza di attività commerciale, corre il rischio di essere riduttivo per queste altre ragioni:
Esula dall’affrontare la questione, ben più ampia, di come in Italia si finanzi il non profit: gli enti pubblici pagano con ritardi che compromettono la possibilità di sostenibilità finanziaria – e in molti casi economica – degli enti; il regime delle agevolazioni legate alle erogazioni liberali è limitato e confuso; la possibilità di ricorrere a forme di marketing sociale – utilizzato in molti Paesi come forma stabile di finanziamento al non profit – è precluso da interpretazioni dell’Amministrazione finanziaria ad alcune importanti categorie, come le Onlus;
Esula dall’affrontare il tema dell’utilità sociale realizzata dagli enti non profit attraverso verifiche ex post sull’attività effettivamente realizzata e su quanto questa sia socialmente utile;
Esula dall’affrontare il nodo del ruolo del non profit nel sistema del welfare e del rapporto spesso poco virtuoso che viene allacciato con le pubbliche amministrazioni, che utilizzano queste realtà quali subfornitori di servizi pagati poco e tardi.
Perfino l’Europa per una volta non si limita a chiedere sacrifici, ma detta il passo nella scoperta e valorizzazione dell’imprenditoria sociale. Di recente, infatti, è stata presentata a Bruxelles la Comunicazione della Commissione Europea “Iniziativa per l’imprenditoria sociale” [COM (2011) 682 del 25.10.2011], che prelude a importanti interventi di valorizzazione del mondo del privato sociale come soggetto portatore di pubblica utilità.
La decisione se concedere o meno un’agevolazione deve muovere dalla considerazione circa la reale utilità di queste realtà, nonché del costo sociale che la loro assenza comporterebbe per il sistema.
Pare infatti assodato che se la pubblica amministrazione da sola dovesse sobbarcarsi il costo della rete sociale che – fitta e coesa – è tessuta in Italia dal non profit, i conti pubblici sarebbero messi assai peggio di quanto già non siano; ma soprattutto, la nostra società non sarebbe quello strano fenomeno – riconosciuto da tutti – che ha tenuto anche durante questa crisi.
Pertanto, ben venga l’estensione delle agevolazione alle scuole paritarie. Sarà, al contempo, interessante iniziare ad affrontare il tema – ben più ampio – di come possa essere fattivamente riconosciuta e sostenuta la pubblica utilità che in Italia è perseguita e realizzata dagli enti non profit.